Ogni vita dovrebbe avere (almeno) 7 gatti.
Misteriosi, languidi, enigmatici, potenti, lunari, i felini di casa (con tutto il loro bagaglio di fascinazioni) sono una straordinaria esperienza di vita che ben conosce solo chi l’ha sperimentata. Poteva, dunque, la letteratura mondiale non riservare a questi magnifici animali migliaia di pagine, dove si stagliano imponenti sul bianco delle pagine striate d’inchiostro? Ovvio che no. Ma con la sua sfingea essenza, il gatto nel tempo si è conquistato le parti migliori: quella dell’amante, del despota o del dio. Ora, questo interrogativo a quattro zampe è al centro del libro di Stéphanie Hochet, Elogio del gatto (Voland, 10 €), nel quale, attraverso le parole di grandi scrittori che al gatto hanno dedicato alcune delle loro pagine migliori (da Colette a Maupassant, da T.S. Eliot a Amélie Nothomb), l’autrice ci svela l’anima del felis silvestris catus (il nome scientifico del micio), nostro silenzioso alter ego, specchio della nostra anima che “giudica, governa e ispira / ogni cosa nel suo impero” (Baudelaire, Il gatto, da I fiori del male).

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La copertina dell’”Elogio del gatto”

Questa tigre in miniatura (che gode sì delle nostre coccole, anche se il gatto non ci accarezza: si accarezza su di noi) “va dove vuole, visita il suo territorio come gli pare, può dormire su ogni letto, vedere tutto e tutto sentire, conoscere i segreti, le abitudini e le vergogne di casa”, per dirla con Guy de Maupassant, che nel racconto Sui gatti, ne tratteggia l’essenza: “È a casa dappertutto, visto che dappertutto può entrare, l’animale che passa senza un rumore, vagabondo silenzioso, errante notturno dei muri vuoti”. Solo chi ha avuto la grande fortuna di condividere casa con un gatto sa come lui non accetti un “no” come risposta né una porta chiusa. Miagola, si agita, si struscia finché non ottiene che l’uscio sia socchiuso: a quel punto si lancia fuori ma dopo pochi secondi è già di ritorno. Non vuole fuggire, il “nostro” felino, ma pretende la possibilità costante della libertà. Perché “il gatto esprime così la sua profonda natura”, spiega Stéphanie Hochet: “Non è completamente selvaggio, né del tutto addomesticato, somiglia a quegli artisti che vogliono essere liberi di inventare, di creare seguendo la loro fantasia”.

E per questo la letteratura ha parlato in abbondanza dei gatti, descrivendoli nel tempo grassi e crudeli, ribelli e pieni di dignità, divini e liberi. Fino a diventare straordinari emblemi della femminilità. Colette nella Gatta riscrisse il triangolo amoroso della commedia di costume con un terzo incomodo a quattro zampe, quando la relazione che lega Alain (giovane sposo di Camille) alla gatta Saha si apre al dono d’amore più estremo, la concessione della libertà: “La sentì sgattaiolare fuori dal paniere e, per tenerezza, smise di occuparsi di lei. Le restituì, dedicandogliele, la notte, la libertà, la terra morbida e spugnosa, gli insetti notturni e gli uccelli addormentati”. Di quel gatto lunare scrisse anche Edgar Allan Poe, mentre quando Rabelais voleva farsi beffa dei magistrati, li paragonava a “gatti impellicciati” (facendo riferimento al mantello d’ermellino). E se Rossini metteva in musica il Duetto buffo dei gatti, il poeta T.S. Eliot dedicava versi al micio Tiremolla nella raccolta di poesie consacrata ai felini (Libro dei gatti tuttofare), che ispirò poi ad Andrew Lloyd Webber il musical Cats.

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Moshi, il gatto dell’autore di questo articolo

Gatti, spiriti insubordinati e indipendenti. Per quanto noi si tenti di regolar loro la vita, la libertà dei gatti profuma di una vivace anarchia. E per noi, semplici umani, diventa difficile entrare nella loro testa. Ci ha provato lo scrittore-sciamano Natsume Sōseki nel capolavoro della letteratura giapponese Io sono un gatto, dove un micio-filosofo si interroga su quanto “abbia contribuito il genere umano alla creazione di cielo e terra” e la risposta non può essere che il rendersi conto che noi in tutto ciò non siamo stati “del minimo aiuto”. Dunque, che diritto abbiamo noi umani di proclamarci padroni di un luogo che non abbiamo creato? Nessuna. Ma se “è vero che nulla impedisce agli uomini di arrogarsi questa facoltà”, riflette il gatto-filosofo, “non ne consegue che possano proibire ad altri l’accesso”. E “da queste riflessioni sono arrivato a convincermi che posso entrare dove mi pare e piace”.

Venerato dagli egizi, perseguitato dai fanatismi del Medioevo cristiano, che nella sinuosa ambiguità felina volevano trovare la malizia del Demonio e un aiuto alle streghe (anche loro simbolo di una libertà – quella femminile – combattuta e stigmatizzata), il gatto ipnotizza, sornione, col suo gesto flessuoso. Ha lo sguardo magnetico e ripaga un graffio con le fusa e una carezza, che è voluttà che abbraccia l’intero corpo, dalla testa alla coda, e strega la nostra mano in un atto sensuale. “Dire di una donna che è una bellezza felina è sottolineare la sua femminilità, eccitare la curiosità e il desiderio”, scrive ancora Stéphanie Hochet. Infatti, in diverse lingue, il termine generico per indicare il gatto è un femminile. In latino: feles, felis; o in tedesco: Die Katze. E in francese la chatte, maliziosamente, non indica solo una micia… Il gatto, insomma è femmina: ammalia, seduce, esaspera, confonde. Perché, da sempre e per sempre, “il gatto è un continente nero sommerso nel nostro inconscio”.

Twitter: @JattoniDallAsen

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