Accadde proprio come nel film. Sapevo che stava per morire, e conservavo la sua voce sulla segreteria. A ogni messaggio nuovo che lasciava cancellavo il precedente: un gesto scaramantico per dire, è ancora viva. Poi un giorno, per errore, dopo che se n’era andata, per riascoltarla pigiai il tasto sbagliato, e cancellai per sempre la voce di mia madre.

Milo si chiama così per «Incompreso», il film del 1966 di Luigi Comencini, tratto dal romanzo di Florence Montgomery. Da ragazzina, ogni volta che lo davano in tv lo guardavo con mia madre; ventenne, avevo già deciso che dei figli che avrei certamente avuto, Milo sarebbe stato il nome del più piccolo. Milo, quasi onomatopeico, il fratellino capriccioso di Andrea Duncombe. Milo, che sembra il più fragile ma in realtà è il più forte. Quando poi il mio Milo è arrivato, minuscolo e pauroso, quasi cinque anni fa, non c’era nome che gli andasse meglio, anche se non sapevo ancora della sua malattia.

L’ipoplasia cerebellare. Sindrome neurologica non progressiva per la quale il cervelletto, che controlla la coordinazione motoria, è sottosviluppato. Avrei dovuto accorgermene prima. Dopotutto, ero cresciuta insieme a cani e gatti, raccolti per strada da mia madre. Se erano in buone condizioni li accudiva sul posto, se malmessi, come spesso accadeva, li portava a casa. Lara, trovata con la leshmaniosi, curata e poi morta investita mentre correva tra le braccia di mio padre; Elga, pastore belga con un arto amputato. Erano gli anni Ottanta, quando non c’erano i trasportini griffati, le pappe all’aloe vera e i cat cafè. C’erano i pacchi di riso soffiato e le latte di bocconcini da 3 kg, con cui mia madre e mio fratello sfamavano decine di randagi. E il pollo. Il pollo lesso di cui puzzava sempre la cucina.

Ma quando Milo arrivò non vidi nulla: era un miracolo quella seconda chance di un figlio, quel microbo di gatto che s’arrampicava sul lettone con le unghiette, soffiava contro l’olio di salmone e inciampava correndo, e arrivava dappertutto ruzzolando. «Quant’è imbranato questo figlio», dicevo sorridendo, pensando che i saltini arrivassero col tempo, che s’imparano, come noi l’abc. Finché non venne il giorno del vaccino.

Milo si buttò giù dal tavolo da visita, i peli dritti come i gatti dei fumetti, corse a nascondersi sotto un mobiletto. Urlava, non ringhiava, e quando finalmente lo prendemmo ebbe le convulsioni. «Questo gatto ha un disturbo neurologico», disse il veterinario. «Vede come fa con la testa? Vede?». Disse che gattini così solitamente venivano soppressi. Mi chiese se ero certa di volerlo tenere.

Io, che già piangevo, diventai una tigre. Certo che l’avrei tenuto, dissi. Se hai un figlio disabile lo butti nel cestino? L’avrei tenuto eccome, facendo tutto il necessario affinché guarisse, o almeno migliorasse. Per prima cosa avrei trovato un veterinario serio, non quel medicastro di centro città che consigliava di sopprimere gattini. Quel figlio io l’avrei salvato.

Trovai un neurologo, Matteo, che mi spiegò quello che quasi certamente era successo, del virus passatogli da feto dalla madre. Spiegò che l’ipoplasia non è una malattia, né è causa al gatto di sofferenza fisica, ma è solo assenza di coordinazione. Problemi a correre e a saltare, dondolìo della testa, qualche difetto di vista. «Certo, hanno bisogno di attenzioni. Cadono, sbattono, si rompono: da soli non sopravviverebbero. Ma vivendo in casa non sanno d’esser diversi da altri mici. E hanno la stessa intraprendenza di qualsiasi gattino. Se i sintomi non sono invalidanti, se il gatto mangia e va in bagno da solo, non c’è alcuna ragione di sopprimerli: possono avere una vita ricca e lunga come gli altri gatti».

Ho fatto di tutto per Milo, compreso insegnargli a saltare, ma ho fatto solo quello che dovevo. Oggi mi picco che sia intelligentissimo. Quale altro gatto, per arrivare al cibo che mangiando spinge dal lato opposto del piattino, entrerebbe dentro il piatto invece di girarci intorno? La strada più breve per il cibo: ho un figlio genio. Di sera gli leggo le favole. La gallina volante, E se covano i lupi, Che animale sei?

Non conosco altri gattini con l’ipoplasia. Forse perché per ignoranza vengono soppressi, non se ne vedono tanti. A volte, però, ne trovo su Love Meow. Quando ho avuto una giornata dura, quando la cattiveria umana è troppa, leggo le storie di Love Meow. Un piccolo sito, fatto da volontari, di storie semplici e insieme eccezionali. Ritrovamenti, salvataggi, adozioni. Piccole storie di eroismo quotidiano. Le leggo di notte, al cellulare, mentre il mio bello dorme. Mentre continuo a carezzarlo, ché se tolgo la mano inizia a brontolare.

Su Love Meow sai come andrà a finire, è come un balsamo. Non leggerai, come mi accadde anni fa, di quel cinese che davanti a compaesani indifferenti iniziò a scuoiare vivo il proprio cane con una lama da rasoio, e nessuno cercò di fermarlo, nessuno diede ascolto a quelle urla disperate che appena ci ripenso non mi fanno dormire.

Su Love Meow non ci sono ragazzini che per divertimento danno fuoco ai gatti, se crudeltà ci sono è solo l’inizio di una storia a lieto fine. Spesso, gli stalli diventano adozioni, com’è successo a Nino, un bel gattone bianco e nero che nei giorni scorsi, grazie a uno sforzo collettivo su Twitter, sono riuscita a piazzare in emergenza, dopo che una famiglia con cui era stato nove anni se ne voleva liberare. L’avevano portato già due volte al gattile, poi quell’ultimatum. Enrico, ragazzo generoso che di gatti ne ha tre più moglie e figli, è corso a prenderlo il mattino dopo. In pochi giorni si sono affezionati e hanno deciso di non lasciarlo più.

Enrico non mi ha chiesto se ce ne fosse uno più bello, come quella scrittrice che anni fa, quando dovevo piazzarne in fretta una decina che rischiavano d’essere avvelenati, voleva un gatto per i nipotini. «Ma non ne hai uno dal pelo più folto? Certo, nelle foto era più bello. Ma i trovatelli, si sa… Mi raccomando, però, deve arrivare pulitissimo, e a tutte le spese pensi tu». Glielo portammo che sembrava un gioiellino, sverminato, microchippato e vaccinato, ma non lo volle e ne comprò uno di razza. O quell’altra che dei suoi gatti persiani dice alle conoscenti animaliste che li ha trovati per strada, mentre alle altre sciorina il pedigree. Adesso è al quarto persiano – tutti trovati per la strada, vedi le coincidenze.

Milo ha la fortuna d’esser bello. Nelle foto, la camminata sgangherata, che a certa gente scatena imbarazzo o addirittura repulsione, non si vede. Non si vede quando ha le convulsioni, né i denti che ha spezzato buttandosi dal letto a capofitto. Si vede solo un bel gattino, nel suo bel trasportino, e l’altro giorno, al negozio di pet food, una signora è esplosa in gridolini. «Ma quant’è bello! Ma dove l’ha preso? Ed è rimasto piccolo, mica come la mia». Poi alla negoziante: «Quando la Fifi muore me ne faccio uno così».

Questo figlio l’ho salvato. E tutti gli altri?

8 marzo 2018 (modifica il 8 marzo 2018 | 21:10)

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