Il primo fu Poverino. Il suo vero nome era Ronnie (nome onomatopeico – ron ron), ma non visse abbastanza per impararlo. Era arrivato a casa piccolo e già malaticcio. Era a righe, rossiccio. Straordinariamente intelligente tanto da dimostrarlo (i gatti sono sempre intelligenti, ma ci tengono a non farlo sapere troppo in giro). Ero riuscita a farne un “gatto da riporto”: gli lanciavo palline di carta arrotolata e lui me le riportava indietro. Non ero stata io ad avere l’idea. Un giorno aveva preso in bocca una pallina che gli avevo gettato ed era tornato sputandola davanti a me. “Sarà un caso”, avevo pensato. Ci avevo riprovato. L’aveva rifatto. “Sarà un caso”. E l’aveva rifatto. Non era un caso. Era ancora un cucciolo quando morì per un virus intestinale. Da allora gli è rimasto il nome Poverino.

Fu subito rimpiazzato dal secondo gatto. Temendo che un altro piccolo di pochi mesi potesse ammalarsi della stessa patologia, ne cercammo uno già adulto. Il veterinario ci indirizzò ad una pensione per gatti. Fu un colpo di fulmine. Celestino aveva già sette anni ed era un gattone enorme tutto bianco con enormi occhi azzurri, simili a bottoni, che apparteneva ad una signora anziana che non poteva più tenerlo con sé. Visto, preso. Portato a casa, appena aperta la porticina della gabbietta scomparve. Per oltre una settimana il cibo che spariva nottetempo dalla ciotola fu l’unico segno della sua presenza.

Poi, una sera, sbucò fuori. Un po’ sporco, perché chissà dove era andato a ficcarsi (i gatti sanno sempre come sparire), aveva deciso che era ora di fare amicizia. Si avvicinò tutto piatto, si strofinò contro le gambe di ciascuno di noi e da quel giorno diventò il gatto di casa. Un po’ particolare (i gatti sono sempre particolari, chi più, chi meno) perché non ha mai fatto le fusa. Forse dipendeva dal fatto che era completamente sordo, e può essere anche questo il motivo per cui non miagolava, ma urlava. Soprattutto di notte. Cosicché qualcuno si doveva alzare e tenergli compagnia. Ma era talmente bello che valeva ogni sacrificio. Timidissimo, si palesava solo con noi. Di fatto sembravamo una famiglia senza gatto, perché nessun altro l’ha mai visto. Visse fino a dodici anni. Si era ammalato di un tumore, inoperabile. L’ultimo giorno, come ogni mattina, mi saltò sulle gambe mentre facevo colazione. Pesava dodici chili, tenerlo accoccolato impediva qualsiasi movimento. Ti riempiva con la sua felinità pelosa e morbida. Una sensazione indimenticabile.

Poi andai a lavorare. Al mio rientro, quella sera, i miei non mi dissero nulla. Erano spariti la sua ciotola, il tappetino e la cassetta. Per un lungo periodo ho avuto l’impressione che un’ombra bianca passeggiasse (i gatti non camminano, passeggiano) per la casa.

Con Cheeky ho condiviso poco tempo. Era arrivata dopo Celestino. Di sicura madre siamese e padre incerto, è sempre stata vivacissima. Di lei ricordo quando, piccolissima, saltava sul letto, veniva appiccata alla mia faccia e si piazzava sul cuscino. I suoi occhietti azzurri fissavano intensamente i miei, studiandoli attentamente. Poi sono andata via da casa e la Cheeky è diventata la gatta di mio padre, grande amante dei felini. Con lei, vissuta dodici anni come Celestino, si è chiusa l’era dei casa in casa della mia famiglia. Per il momento, almeno. In un futuro, chissà.

Ora tocca accontentarsi del gatto a strisce che tiene compagnia al mio avatar nelle illustrazioni che hanno accompagnato ogni Contro Copertina.

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