È questo l’ambizioso progetto del biologo Con Slobodchikoff, che grazie a un evoluto algoritmo potrà convertire abbaio o miagolio del proprio animale domestico in linguaggio umano. A quanto sembra, nell’arco di appena dieci anni

cane

“Gli manca solo la parola!” usiamo dire spesso riferendoci a cani o gatti di casa. In effetti, nella maggior parte dei casi cani e gatti sembrano pienamente capaci di capire e farsi capire dall’essere umano, come fossero a un passo dall’esprimersi nel nostro stesso linguaggio. Ebbene, presto l’intelligenza artificiale potrebbe compiere quel passo, aiutandoci a valicare quel confine: Con Slobodchikoff, ricercatore e professore emerito alla Northern Arizona University, esperto di comportamento animale, sta mettendo a punto un dispositivo che potrebbe permetterci a tutti gli effetti di dare voce umana agli animali, grazie ad un algoritmo che ne potrà leggere e interpretare i versi e le espressioni facciali. E tradurre un abbaio, per esempio, in un “ho fame”. Un traguardo dai tratti fantascientifici, ma che a suo dire sarà raggiungibile al massimo entro una decina di anni.

Con Slobodchikoff studia il comportamento degli animali da almeno 30 anni. Gran parte di questo tempo l’ha dedicata ai cani della prateria, analizzando nel dettaglio il loro complesso sistema di comunicazione, fatto di precisi comandi e istruzioni. Si tratta di intelligenti roditori della famiglia delle marmotte, molto diffusi nelle praterie del Nord America, dotati di una sofisticatissima forma di comunicazione vocale che, secondo le scoperte del ricercatore, ha ben poco da invidiare al linguaggio umano. I loro stridii, emessi per avvisare il gruppo dell’arrivo di potenziali minacce, sembrano infatti variare a seconda delle dimensioni del predatore. Non solo: questi roditori riescono a plasmare i loro vocalizzi per comunicare ai propri simili persino il colore e la forma degli altri esseri viventi avvistati.

A illuminare il ricercatore è stata l’insospettabile capacità di questi animali di comunicare assemblando in modo consapevole e volontario le unità acustiche del linguaggio: “Nel linguaggio umano chiamiamo fonema la più piccola unità del suono. Diversi fonemi vengono assemblati nei cosiddetti morfemi, le più piccole unità del significato, che a loro volta compongono le parole. Dall’osservazione dei cani della prateria è emerso lo stesso meccanismo che usiamo noi umani: i versi emessi contengono sempre gli stessi fonemi, ma assemblati ogni volta in modo diverso a seconda del messaggio che si vuole trasmettere”. Una scoperta che ha ispirato Slobodchikoff a proseguire nella sua ricerca e approfondire le analogie tra linguaggio umano e animale.

Finché, qualche tempo dopo, il passo successivo. “Se possiamo raggiungere certi risultati con i cani della prateria, possiamo fare altrettanto, se non oltre, con cani e gatti domestici”, animali dalle dinamiche comunicative senz’altro meno complesse. Collaborando con un informatico, oggi Slobodchikoff si impegna in un lavoro ambizioso: creare un dispositivo ‒ una sorta di traduttore ‒ che grazie ad un particolare algoritmo possa convertire i versi dei cani in lingua inglese. Per riuscirci, il ricercatore si serve di video in cui i cani sono impegnati in attività di varia natura, così da insegnare all’intelligenza artificiale il significato dei vari segnali ‒ non solo latrati, ringhia e ululati ma anche movimenti ed espressioni facciali.

Uno strumento tecnologico capace di “interpretare” messaggi esterni, quindi, oggi non può ancora fare a meno dell’elaborazione umana. Slobodchikoff, tuttavia, sostiene di voler sfruttare il progresso tecnologico per condurre esperimenti che gli permetteranno di comprendere sempre più a fondo il significato del comportamento animale. Un approccio che, secondo le sue aspettative, nell’arco di dieci anni darà vita ad un dispositivo mai visto: basterà puntarlo verso il proprio cane per poter sentire in pochi secondi “portami a spasso!” o “non sono stato io!”, in perfetto linguaggio umano.

Un giorno, in futuro, questi traduttori potrebbero rivoluzionare il modo in cui ci prendiamo cura dei nostri animali, minimizzando gli errori che talvolta commettiamo nell’interpretare i loro segnali. Ma al di là dell’aspetto emotivo, strumenti di questo tipo potranno essere utili in senso più ampio, a partire dal lavoro. Agli allevatori, per esempio, potrebbe far comodo rilevare istantaneamente e con certezza lo stato di salute degli animali: proprio questa è la scopo di un algoritmo messo a punto dai ricercatori dell’Università di Cambridge, in grado di capire se una pecora prova dolore grazie all’analisi delle sue espressioni facciali. Stiamo parlando di strumenti, insomma, che potenzialmente apriranno orizzonti a cui oggi siamo ancora lontani. Intanto Slobodchikoff l’anno scorso ha fondato Zoolingua, azienda con cui porterà avanti le sue intenzioni: aprire una nuova era nella comunicazione tra esseri umani e animali.

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