Solitario, pigro, indipendente ed egocentrico: ecco alcuni degli aggettivi che solitamente vengono affibbiati al gatto, uno degli animali che da più tempo condivide la vita domestica con l’uomo. Non dimentichiamoci, infatti, che “mummie feline” sono state ritrovate addirittura nelle piramidi egizie a far da compagnia nell’Aldilà ai faraoni! Eppure, nonostante una così lunga frequentazione, il gatto rimane un po’ un mistero per noi esseri umani che alla fine preferiamo rifugiarci nei soliti luoghi comuni invece di provare a conoscere meglio questo nostro compagno di lunga data.

Peccato davvero, perché nell’universo della felinità le cose da scoprire non mancano, come ci racconta L’identità del gatto (Safarà editore, 2018, Euro 15,00, pp. 270), scritto dal filosofo ed etologo Roberto Marchesini partendo da un principio fondamentale: mettere il gatto al centro del racconto. Provare, cioè, a chiederci quali sono le attività che gli piacciono, cosa desidera, come ama rapportarsi con noi e non quello che può fare per noi, per tenerci compagnia. L’obiettivo dichiarato dell’autore è mettere in crisi le nostre certezze, anche quelle più sedimentate, e scoprire il gatto come essere vivente dotato di personalità propria e desideri. E per questo meritevole non solo di attenzioni ma anche di rispetto per la sua diversità, per la sua peculiare identità. Ma appunto, che identità ha questo felino domestico? Lo chiediamo a Roberto Marchesini.

“Il gatto ha un’identità forte, non è un’entità liquida che può assumere qualunque forma a seconda del contenitore in cui viene inserita. Questa cosa viene spesso dimenticata quando si decide di prendere un gatto in casa. Si ignora cosa sia la felinità e si prende un gatto perché ci piacciono alcune caratteristiche di questo animale, perché ha fascino, è elegante, è più indipendente di un cane. Lo si considera alla stregua di un peluche e non ci si interroga molto su cosa piaccia a questo felino, cosa lo infastidisca, non ci si chiede quali talenti abbia ma anche quali siano le sue fragilità. Non lo si tratta come soggetto ma come oggetto”.

Cosa piace e cosa non piace ai gatti di solito?

“Per esempio, il gatto ama moltissimo interpretare la sua abitazione, sentirsi rassicurato dalla sua casa, attribuire funzioni e utilizzi ai vari ambienti. Per il gatto la casa dove abita non è uno spazio indistinto né solamente fisico ma uno spazio situazionale, cioè un luogo a cui lui attribuisce molti significati. La casa è un tempio, un luogo sacro e per questo il gatto non sopporta quando gli ambienti vengono cambiati. Il cambiamento della casa equivale per lui allo spostamento dei cartelli stradali per noi: provoca smarrimento. Per questo ogni sua azione nella casa è una marcatura. A noi sembra che gratti con le unghie, che si strofini con il corpo e con il muso, ma in realtà sta ponendo i suoi sigilli che hanno determinati significati e valori. Per il gatto la casa è fondamentale, se ne sente proprietario, titolare. E noi che si fa solitamente? Gli si porta in casa un altro felino!”

Ma non si fanno compagnia?

“Non si potrebbe fare cosa peggiore al nostro gatto di casa perché significa mettere in discussione la sua titolarità. Per quanto riguarda la compagnia è il cane che ha sempre bisogno di stare con noi, di una compagnia attiva, operosa. Il cane non ci molla gli occhi di dosso. Il gatto è diverso: sta con noi, viene da noi, si rilassa con noi. Non ha con noi una vita collaborativa ma conviviale, è un “animale da aperitivo”, mi piace dire, si mette vicino a noi come un amico al bar, ordina e poi sembra dirci “ora stiamo tranquilli, rilassiamoci”. Per questo nel sottotitolo del libro parlando del gatto dico “la forza della convivialità”.

Troppi stimoli lo infastidiscono?

“Diciamo che non sopporta le persone morbose, asfissianti, che lo vogliono costantemente in braccio oppure accarezzare di continuo. Alla fine il gatto dà molte più attenzioni a chi lo ignora. Insomma ama stare con noi, condividere, ma facendo cose differenti. È un grande solista, non un solitario, che ama fare da solo pur essendo molto sociale”.

Oggi molte persone hanno un cane o un gatto in casa, però non sempre c’è consapevolezza di cosa significhi veramente avere a che fare con un animale. Manca informazione a suo parere?

“Manca informazione, manca educazione, però c’è anche un problema molto profondo che riguarda l’uomo del nostro tempo. Molte persone vivono una condizione di solitudine affettiva e cercano di darvi compensazione con la relazione con gli animali. Quando sento dire che le persone amano molto gli animali io dico sempre: ‘Attenzione, perché le persone amano molto di più loro stesse’, cioè cercano attraverso l’animale di surrogare le proprie mancanze e i propri bisogni. Questo crea un grosso problema che ricade sugli animali”.

Che tipo di problema?

“Semplice, le persone vogliono il gatto ma non la sua felinità. E agiscono così non per ignoranza ma perché proprio vogliono umanizzare l’animale, negando le sue caratteristiche, sterilizzandole. Vogliono una specie di essere umano accanto anche a costo di negare l’identità dell’animale. Viceversa la relazione con un animale è bella se permette di esprimere peculiarità e caratteristiche dell’animale stesso. Umanizzare, invece, non significa viziare ma maltrattare. Se si vizia un gatto vuol dire che gli diamo troppo di quello di cui ha bisogno, ma se lo umanizziamo gli togliamo quello che a lui serve per stare bene. Significa fargli del male. Un discorso veramente difficile da far comprendere in una società come la nostra dove le persone hanno seri problemi di relazione con i propri simili. Si è puntato tutto sull’individuo e si è creata una voragine sul fronte relazionale. E a pagare il conto sono anche cani, gatti e altri animali, cioè chi non ha colpe”.

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