di Federica Pezzoli

“Non sono io”, per circa due ore Paolini presta il suo “corpo d’attore” al Jack London di “Zanna Bianca” e “Il richiamo della foresta”, che per dirla tutta un po’ si lamenta: “son morto a quarant’anni, un po’ più figo di così”. È “Ballata di uomini e cani”, il nuovo lavoro di Marco Paolini, che torna a Ferrara dopo esser(ci) mancato qualche anno: l’ultima volta era salito sul palco del teatro Comunale nella stagione 2010-2011 con “Itis Galileo”. Qui si parla di uomini e cani, ma “tranquilli cari lettori, niente romanzi, sono troppo lunghi”, solo tre storie a formare un racconto popolare del grande Nord, un canzoniere teatrale in cui bestie ed esseri umani sono coprotagonisti.

Ciò che riguarda la vita di vagabondo Jack London nella fine Ottocento, le bevute e le sbronze, la vita nel porto di San Francisco, le febbre dell’oro, il vagabondare sui treni, si confonde grazie a un brillante ritmo verbale, musicale e visivo, con la drammaturgia di Marco Paolini e le storie di Macchia, di Bastardo e del cane senza nome di “Preparare un fuoco”, i cui titoli sono scanditi da una macchina da scrivere sui fusti in plastica bianca disseminati sul palco e appesi al fondale, emblema di quanto London sia stato capace di scolarsi in vita.

Macchia era “un bellissimo esemplare di cane da tiro… non avemmo mai occasione di verificarlo”, pelandrone, astuto e vorace, capace di ritrovare i suoi padroni fra gli odori di 40.000 anime. Quella di Bastardo e del suo padrone, Black Leclère, è una “storia di odio a prima vista”, perché è l’odio, non l’amore, a muovere la vita, ma “non è meglio un sentimento, anche se è odio, piuttosto che niente?” E così il cane mezzo lupo e lo zingaro vivono implacabilmente avvinghiati da un sentimento atroce fino alla vendetta fatale.

Infine “Preparare un fuoco”: qui un uomo tenta un’impresa impossibile e rischiosa e il cane gli sta a fianco e mette a repentaglio la sua vita non per fedeltà o amicizia, ma perché teme le bastonate e per l’antica alleanza che i suoi antenati lupi hanno stretto con gli antenati del suo padrone in nome del fuoco. Il suo uomo però è privo di immaginazione, moderno male che forse attanaglia anche il nostro presente, non riuscirà a contrastare il gelo e soccomberà alla disperata ricerca di un calore che oltre che fisico è anche esistenziale. Il fuoco non è più garantito, il cane torna lupo e si allontana nella foresta.

Jack London riprende vita e carne attraverso la voce e il corpo del cantastorie Marco Paolini. Non è più cristallizzato nella figura di autore per ragazzi: “Non sono un esempio per le giovani generazioni, voi mi avete messo sullo scaffale dei libri per ragazzi!” È un solitario errante, sempre in lotta per la sopravvivenza, cercatore d’oro e sogni, perso nei meandri delle umane contraddizioni, scrutate attraverso lo sguardo implacabile del cane, rappresentante e portavoce di quella Natura così spesso ignorata e bistrattata nel Klondike di fine Ottocento come ai giorni nostri. “Ballata di uomini e cani”, infatti, è anche uno spettacolo che ragiona sui limiti dell’umano a confronto con un ambiente naturale estremo in cui certe certezze vacillano e uno si ritrova a fare i conti con i propri limiti. Sì perché la Natura è al di là del bene e del male, non ha sentimenti.

L’elemento musicale è determinante all’interno della narrazione. Oltre alle musiche dal vivo, eseguite live da Lorenzo Monguzzi alla chitarra e voce, Angelo Baselli al clarinetto e Roberto Abbiati al banjo e fisarmonica, ci sono anche suoni onomatopeici creati con gli utensili più vari, proprio come doveva accadere ai minatori nell’ambiente ostile del grande Nord: l’ululato conun suono storpiato di armonica a bocca, il crepitio delle fiamme con la saggina, l’affilatura di coltelli con vere e proprie lame, il respiro del lupo. Si ride, ma la tragedia è in agguato, amore e odio si incrociano sulla strada, dramma e ironia si inseguono, in bilico su un sottile, ma robusto filo di passione, poche risposte, mille domande.

“Ballata di uomini e cani” è una ballata di vagabondi e l’epilogo è la storia di Zaer, “saldatore errante dell’Asia”, morto come un cane schiacciato sotto le ruote del mezzo che lo trasportava verso la speranza.

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