P er il vero amante dei gatti (detto anche gattaro, gattofilo, gattomane ecc.) la stagione delle ferie spesso coincide con quella della grande nostalgia. Di casa, della propria terra lontana? Macché, delle fusa di un gatto che abbiamo lasciato a casa ovviamente, per quanto servito e riverito da una cat sitter a tempo pieno che ci costa più della vacanza stessa.

Questa sua «privazione da felino domestico» costringe il gattofilo a cercare all’estero, dove si è recato con gli amici, un surrogato del gatto di casa da coccolare e spupazzare. Quando, dopo 300 km di sterrato, arriva finalmente davanti all’agognato monumento che toglie il fiato di bocca a chiunque sulla terra, il gattomane fa finta di rimanere a bocca aperta, ma in realtà ha già adocchiato un gatto che se la dorme beato all’ombra, sulla sommità di un piccolo manufatto costruito 3mila anni prima dalla popolazione locale. A costo di fare ritardare la visita di gruppo, il vero gattofilo si avvicina al felino richiamandone l’attenzione con l’unico risultato di rompergli gli attributi che in quel paese vengono lasciati ben attaccati al legittimo proprietario. Fatto sta che il gatto non risponde e a nulla vale cambiare tipo di richiamo, se non a fare incazzare gli amici che vedono la guida svanire all’orizzonte con un gruppo di puntualissimi giapponesi.

Il povero gattofilo sarà anche un amante dei gatti ma non sa che i propri sforzi sono vani, perché in quel paese il gatto viene chiamato in tutt’altro modo rispetto al nostro e non può fare altro che continuare a sonnecchiare. La rivista Bored Panda ci fornisce quindi una specie di dizionario che serve a conoscere il modo in cui le popolazioni straniere chiamano i gatti nelle loro nazioni. Così se vi recate in Romania e volete attirare l’attenzione di un gatto dovrete chiamarlo con un «Pis-Pis-Pis», mentre gli australiani apostrofano i loro gatti con un «Pus-Pus-Pus». Più vicini a noi, ad esempio in Polonia, il richiamo per il gatto è un bel «Kitschi-Kitschi-Kitschi», mentre i tedeschi che esigono attenzione dal proprio gatto si esprimono con un secco «Miez-Miez-Miez». A questo punto immagino la vostra disperazione nel caso vi recaste in Cina. Chissà come chiamano là i gatti. Beh, semplicemente «Miao-Miao-Miao», quindi vi andrebbe più che bene, mentre trovereste qualche difficoltà con il «Neko-Chan-Oide» che riservano i nipponici ai loro adorati e fusanti pelosi.

A questo punto viene da chiedersi se un gatto italiano possa «parlare» e «capire» un gatto giapponese. La risposta è sì, senza ombra di dubbio perché la comunicazione tra gatti non è fatta di parole (pardon, miagolii) ma di sguardi e finissimi atteggiamenti del corpo che solo un severo studio, o il primordiale istinto, possono decodificare. Altre domande che vengono spontanee sono: ma i gatti, sotto qualunque costellazione vivano, capiscono le nostre parole? E noi capiamo le loro? La risposta è decisamente positiva, sempre che ci intendiamo bene su cosa sia il linguaggio e non crediamo che sia formato solo di parole o miagolii. Il gatto non ha alcuna difficoltà a capire se l’intonazione che diamo alle nostre parole è amichevole oppure ostile, così come noi non possiamo ignorare che alzare la coda o dimenarla sferzando l’aria hanno due significati completamente diversi. Alla fine, che vivano in Himalaya o in Perù, il gatto e l’uomo potranno sempre capirsi. Purché scatti quella magia che li accomuna.

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