Nella lista delle cose che non avrei mai immaginato di fare, al numero uno c’era tatuarmi un cane su un braccio.

Ok, facciamo pure al numero tre: subito dopo salire su un’astronave e mettermi un tailleur.

Un paio di giorni fa, mi trovavo stesa sul lettino di una celebre tatuatrice, mentre per tre ore — volate sotto il tocco del suo ago lieve —vedevo prendere forma sulla parte interna del mio avambraccio un medaglione, con al centro lei: Zazie.

Zazie è una meticcia di un anno e mezzo, metà Jack Russel e metà miracolo, magia, amore soprannaturale. Spesso ho pensato che suo padre fosse un nobile levriero, a volte ho immaginato che fosse Bambi. Altre volte ho stalkerato su Instagram la proprietaria di sua madre (una sconosciuta che ha fatto partorire il suo cane per poi portare i cuccioli al canile dove noi l’abbiamo adottata) per scoprire indizi genetici che mi dessero risposte.

Più che voler dare un muso al bastardino dell’entroterra campano che aveva ingravidato Chanel (sì, la madre di Zazie si chiama così, l’ho scoperto su Instagram), credo che le domande alla base della mia ricerca fossero altre.

Cos’ha questo cane di così speciale? Perché mi ha cambiato la vita fino a farmi percepire diversa? Perché ha cambiato la percezione di me fino a farmi desiderare di cambiare, con un tatuaggio, il mio corpo?

Io non l’ho mai voluto un cane. Sono sempre stata convinta di essere un tipo da gatto (è sorprendente quanto poco ci si conosca, a volte). L’unico cane al quale mi sia mai accostata nella vita (la mia vita prima di Zazie, intendo) portava il nome di Van Dick, ed era il cane da guardia della mia casa d’infanzia.

Un pastore tedesco paziente, di quelli che negli Anni ‘80 vivevano nei giardini delle case — varcare la soglia gli era severamente proibito — accontentandosi delle frugali carezze del padrone e di una grossa ciotola di cibo (la definizione tecnica era: pappone) preparato con croste di pane bagnate e avanzi delle cene.

A suo modo era amato, sì, ma in quel modo parco e distratto con cui i cani si amavano allora. Quando erano prima di tutto una funzione (fare la guardia, cacciare) e quando il principale comandamento della pedagogia canina recitava che i cani dovessero «stare al posto loro».

Il posto di Zazie è al centro del divano. O sotto le coperte del nostro letto, dove ogni sera, appena io mi stendo, corre ad infilarsi.

Intorno a Zazie si organizzano pomeriggi-per-cani in parchi-per-cani e spiagge-per-cani, si programmano vacanze (lasciarla in pensione, ovviamente, non è un’opzione), si studiano strategie educative.

Per Zazie si coprano cucce di design, si ordinano pettorine che arrivano dall’altra parte del mondo. Per Zazie si cucina: sì, ma non il pappone, bensì una dieta bilanciata secondo i severi precetti del veterinario nutrizionista.

Dogs are the new kids, recita una scritta sulle mug più amate dai cinofili americani. I cani sono i nuovi bambini: e se non bastassero i gadget a dirlo, ci sono i numeri. La Pet Industry è in crescita esponenziale da anni in tutto il mondo (dall’Italia alla Corea del Sud, dall’India alla Cina) e, mentre al livello globale si assiste a una decrescita della natalità e a un invecchiamento della popolazione, aumenta sempre di più il numero di proprietari di cani: In Italia ce ne sono sette milioni.

Negli Stati Uniti, nel 2016, il numero delle famiglie con cani è stato il più alto nella storia (ce n’è uno in 71,4 milioni di case). E poi ci sono i social: su Instagram, dove gli account di cani spopolano, le celebrity canine valgono fino a 3000 dollari a post (pagati dai brand della pet-industry per promuovere i loro prodotti) e nascono nuove dog-agency per rappresentare gli interessi dei cani insta-famous e per negoziare i loro contratti con i marchi.

Il ruolo del cane nella gerarchia familiare ha acquisito una centralità impensabile ai tempi di Van Dick. Sarà perché l’etologia canina si è sviluppata fino ad affermare che i bisogni di un cane non sono tanto diversi da quelli di un uomo. Sarà che andiamo in cerca di surrogati per i figli che non facciamo. O che cerchiamo conforto nella linearità di un amore che non ammette la contraddizione: tu mi nutri, io ti seguo. Tu mi accarezzi, io ti lecco la mano.

Sarà semplicemente che noi proprietari di cani siamo una nuova fetta di consumatori, disposti a spendere per dare ai propri cuccioli il meglio, e corteggiati da un nuovo, fiorente mercato.

Eppure, Zazie non fa di me solo un nuovo target per il marketing. Né solo la social media manager del suo account Instagram (perché ovviamente anche lei ne ha uno).

«Voglio un cane – voglio un cane – voglio un cane». Mio marito mi ha ossessionata per anni con la stessa petulanza di un dodicenne. E io, che un cane non lo avevo mai voluto, a un certo punto ho abbassato la guardia. Per un breve momento ho messo in dubbio le mie buone ragioni — viaggiamo troppo, lavoriamo troppo, i cani sporcano, i cani puzzano, e poi io sono un tipo-da-gatto — e ho lasciato che l’idea si facesse strada nella mia mente. Da lì, al medaglione che ora porto tatuato con orgoglio sul braccio, è stato un attimo.

È entrata in casa, piccola e acciaccata come tutti i cani che arrivano dai canili, e si è presa uno spazio che io neanche sapevo esistesse. Lo avevo immaginato, lo avevo sospettato, ma non avevo mai lasciato che quello spazio si aprisse, che quel luogo prendesse forma.

In quel luogo adesso lei si accoccola con le sembianze di una ciambella, quel luogo lei lo presidia con il suo bisogno ineluttabile di contatto, con la sua inderogabile e perenne richiesta d’amore. E quella richiesta, quel bisogno, mi costringono a produrre amore continuamente. Eravamo una coppia. Zazie ha fatto di noi un branco.

Lei ha tessuto scodinzolandoci intorno quel un filo invisibile che ci lega e che ci tiene uniti sempre, e che ci ancora a terra, al destino e alle cose della vita con una naturalezza che non conoscevamo.

Lei ci ha messi in crisi: «vuoi più bene a lei che a me», ho sentito dire a mio marito, «non sei in grado di prenderti cura di niente oltre che di te stesso», mi sono sentita dire. E lei ci ha ricuciti in un equilibrio nuovo.

Si dice che umanizzare troppo i cani sia un rischio, un errore, una pericolosa proiezione. Io posso viziarla, vestirla, fotografarla, ma non farò mai di lei una bambina. Lei, però, ha fatto di me una lupa.

Zazie mi ha rivelato qualcosa di più, e di più concreto, fisico, ancestrale, su quanto l’amore non abbia barriere. Nemmeno di specie. Zazie mi ha mostrato che non si finisce mai di conoscere se stessi. E che forse un giorno salirò su un’astronave.

Questo testo è apparso originariamente su Futura, la newsletter gratuita di Corriere. Per iscriversi, e riceverla ogni venerdì alle 12, basta cliccare qui.

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