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Mestiere da cani. Non da guardia, da caccia. Fino a dar ragione ai Riina!

ROMA – Mestiere da cani. Quello dei giornalisti, dei cronisti, quello della stampa, televisione, radio. A chi lo fa è sempre piaciuto raccontarlo come un mestiere da cani: l’assenza di orari, il mai nessun giorno davvero festa, lo star sbattuti fuori che piova, nevichi o il sole spacchi le pietre. E il partire, star fuori casa, spesso anche se non volentieri sfasciare famiglie perché mai un impegno preso o un appuntamento dato possono essere sicuramente rispettati. Dipende, dipende dalla giornata, dipende dal giornale…

Mestiere da cani perché richiede sempre il primo posto, anzi non lo richiede, lo pretende. Il primo posto rispetto a vacanze, riposo, mogli e mariti. Mestiere totale in cui, se lo fai davvero, sei fuori servizio solo quando dormi. E neanche, spesso mentre dormi ti sogni i titoli fatti e da fare. Così piace ai giornalisti raccontarselo. Così se lo raccontano da generazioni, esagerando un po’, ma solo un po’.

Mestiere da cani anche in altra accezione e significato. Di cui i giornalisti vanno fieri. Che i giornalisti espongono come gonfalone. Accezione e significato che la stampa si appunta al petto come medaglia e all’identità come ragione e funzione sociale. Una metafora che è bandiera del giornalismo orgoglioso di se stesso. Mestiere di cani da guardia. Giornalismo, stampa come cane da guardia. Cane da guardia del potere, dei poteri.

Fiero, orgoglioso il giornalismo di essere cane da guardia del potere, dei poteri. Fiero e orgoglioso non senza ragione. Il cane da guardia dei poteri ha vigilato più volte e più volte impedito a poteri di ogni genere di fare danno, ingiustizie, di devastare, razziare la fattoria-società affidata al cane da guardia incarnato dalla stampa.

Ma da un po’, da un bel po’ ad essere onesti, una nuova e diversa “razza” canina si è data al giornalismo, ha colonizzato il giornalismo, si è presa il giornalismo. Non più cani da guardia del potere, dei poteri. Ma cani da caccia, caccia al prossimo. Caccia a chiunque, a torto o a ragione al cane da caccia non interessa, possa essere preda da inseguire, azzannare, sbranare perché no?

Cominciava a succedere quando il giornalismo cominciava a dismettere, perdere, non considerare più essenziali le caratteristiche specifiche per fare il cane dai guardia dei poteri. Un cane da guardia sa riconoscere gli odori, ha competenza su ciò che annusa. Distingue tra chi a giusto titolo cammina là dove altri non hanno titolo, non confonde abitanti di casa e intrusi. Un cane da guardia, osserva, scruta, valuta. Non abbaia furiosamente due volte al giorno perché così gli comanda l’abitudine, perché così fan tutti.

Insomma per fare il cane da guardia a tutela dell’interesse collettivo l’informazione deve essere competente e saper distinguere. L’informazione per cui il potere, tutti i poteri e sempre e comunque meritano un’abbaiata è un’informazione da cani…da borsetta. Piacevolmente, pateticamente, innocuamente isterici.

Dismessa, perduta, estinta o quasi la razza del cane da guardia, ecco arrivare e dominare il cane da caccia. Non sa, non vuole sapere chi insegue e cosa insegue. Lui caccia. Talvolta caccia niente meno che inutili e incomprensibili parole in sequenza, caccia la “dichiarazione”. Di un politico, di un sindacalista, di un sindaco, di un vigile urbano. Di chiunque, il giornalismo contemporaneo è pieno di addetti al riporto delle dichiarazioni, come i cani addetti al riporto dell’osso. Per cacciare la dichiarazione ci si assembra in piccolo branco, poi ci si spartisce il magro osso.

Vanno però alla grande battute di caccia più grosse, ciascun giornalista la prova la caccia grossa. All’inizio era la domanda “cosa prova” al parente che aveva appena visto morire il parente o all’arrestato ancora in manette. Poi fu il “lei perdona” chiesto alla vittima di un delitto. Quindi, perfezionando la caccia, fu il ci sveli almeno un segreto domanda surreale grottesca rivolta al boss.

Ma erano ancora e solo prove di tecnica di caccia, all’uomo. Ora il giornalismo si è messo in proprio: la caccia la sceneggia, la recita, confeziona e distribuisce. Il giornalismo è la caccia. E’ un format narrativo. Il giornalista-cronista-operatore-cameraman raggiunge, tocca la preda e questa è insieme verità, processo, sentenza, spettacolo, gioia e divertimento del pubblico.

Lo hanno colto e scritto Mattia Feltri e Aldo Grasso: cani da caccia, all’uomo. Cani che rispondono solo all’istinto (?) o meglio al condizionamento o meglio ancora alla cultura per cui l’unica è cacciare. Perché e chi sia la preda il cane da caccia non sa. Fino ad arrivare a domandare ai parenti di Totò Riina che stanno andando al cadavere di Totò Riina, “Perché non si è mai pentito?”. Domandarlo in strada, buttata lì, hai visto mai quella donna dica o farfugli una cosa che fa titolo. Cani da caccia senza cervello, morale e misura, fino a dar ragione per un momento, ma a dar ragione ai Riina che reagiscono con un sacrosanto “Ma come si permette”.

Cani da caccia cui è stato insegnato nessuna dignità professionale o personale può far d’ostacolo o rallentare la corsa alla preda. Cani da caccia cui è stato insegnato che solo il cacciatore (il pubblico) sa e deve sapere chi e cosa si caccia. Il cane corre e azzanna in felice inconsapevolezza. Cani da caccia chi si sfiancano e si umiliano da soli in un eterno e compulsivo inseguimento universale.

Cani da caccia cui è stato detto che non c’è nulla che possa o debba fermare la caccia a un like, ad un titolo, ad un’oncia di audience, ad una bugia, perché no se fa pubblico? Ma non è vero, e non perché si debba essere buoni e corretti. Non è vero perché ci si rimette. Smettendo di essere cani da guardia competenti e accorti si smette di avere un ruolo, una funzione e utilità sociale e anche lo status e lo stipendio che corrispondono. Scegliendo di essere cani da caccia, si ammette di poter esser saziati con qualche frattaglia di risulta.

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