Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 18 gennaio – 14settembre 2017, n. 41963
Presdente Izzo – Relatore Cenci

Ritenuto in fatto

1. Il Giudice di pace di Mantova il 9 gennaio 2015 ha ritenuto Ti. Bo. responsabile del reato di lesioni colpose in danno di Ma. Ve., fatto contestato come commesso il 25 dicembre 2011, ed ha conseguentemente condannato l’imputato, senza attenuanti, alla pena di trecento Euro di multa.
2. La contestazione nei confronti di Ti. Bo. è quella di avere, per colpa generica, consistita nel non avere adottato tutti gli accorgimenti atti a tenere sotto controllo il proprio cane pastore tedesco, che, fuggito dall’abitazione dello stesso Bo., aggrediva Ma. Ve., procurato a quest’ultimo lesioni personali consiste in ferite lacero contuse ed escoriazioni del palmo e del dorso della mano sinistra, giudicate guaribili in sette giorni salvo complicazioni.
3. Ricorre per la cassazione della sentenza l’imputato, tramite difensore, che si affida a cinque motivi: mediante i primi due deduce violazione di legge; con gli ulteriori tre promiscuamente violazione di legge e difetto motivazionale.
3.1. Con il primo motivo censura inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, sotto il profilo della dedotta carenza degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 590 cod. pen., con particolare riferimento all’elemento oggettivo, sub specie di nesso di causalità.
Ad avviso del ricorrente, infatti, sarebbero stati omessi nella ricostruzione da parte del giudice di merito elementi fattuali, pur emersi dell’istruttoria, che, invece, ove tenuti in considerazione e correttamente valutati, avrebbero dovuto condurre all’assoluzione dell’imputato. Si tratta dello stato dei luoghi e del contesto abitativo, anche fotograficamente dimostrato, essendo i fatti maturati in una zona di campagna, in prossimità della casa dell’imputato, lungo una strada sterrata generalmente non frequentata, e ciò a maggior ragione il giorno di Natale, verso l’imbrunire, quando un gruppo di persone, tra cui la vittima, con cani al seguito, si sono avventurati a passeggio, così venendo ad introdurre un imprevedibile elemento di anomalia e di eccezionalità tale da interrompere, quale causa sopravvenuta, il nesso di causalità tra la contestazione di omessa vigilanza sul proprio cane da parte di Ti. Bo. e l’evento concretamente occorso.
3.2. Si denunzia, poi, ulteriore inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, sotto il profilo della dedotta carenza dell’elemento soggettivo della fattispecie di cui all’art. 590 cod. pen.
Nel contesto fattuale suaccennato il fatto del terzo, cioè la condotta delle persone diverse dall’imputato, tra cui Ma. Ve., e la colpa del danneggiato verrebbero a costituire caso fortuito rilevante, secondo il ricorrente, ai sensi dell’art. 45 cod. pen., con conseguente esclusione della responsabilità dell’imputato in relazione alla custodia del proprio cane. In ogni caso – si ritiene – le persone che passeggiavano in campagna, tra cui la p.o., in compagnia dei loro cani, avrebbero palesemente accettato il rischio dell’incontro con un altro cane, non essendo infrequente che in una casa in campagna vi sia un animale libero, anche solo temporaneamente. Sarebbe stato prevedibile infatti, secondo il ricorrente, che, anche per un senso di territorialità, sarebbe potuto accadere uno scontro tra cani, sicché sarebbe stata opportuna da parte del gruppetto intento alla passeggiata pomeridiana una – sensata – manovra di retromarcia, non essendo peraltro obbligato il passaggio nei pressi dell’abitazione del ricorrente.
La frapposizione di Ve., infine, tra gli animali in lotta sarebbe stata una manovra non necessaria, azzardata, pericolosa, inopportuna ed imprevedibile.
3.3. La sentenza sarebbe, poi, nulla per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione relativamente alla valutazione delle prove costituite dalla molteplici dichiarazioni testimoniali.
Si sottolineano le ritenute divergenze tra le plurime testimonianze assunte, in parte riferite testualmente nel ricorso ed allo stesso allegate, per inferirne che le stimate contraddizioni circa la dinamica dell’accaduto non consentirebbero di ritenere provata la penale responsabilità dell’imputato, illegittimamente affermata, in – ritenuta – violazione dell’art. 192, comma 1, cod. proc. pen., e con motivazione che si stima essere soltanto apparente.
3.4. Ulteriore profilo di illegittimità discenderebbe dall’avere qualificato il fatto come delitto di lesioni colpose, anziché come contravvenzione di omessa custodia e malgoverno di animali, ex art. 672 cod. pen., peraltro di recente depenalizzata, tra l’altro non risultando, almeno ad avviso dello scrivente, che sia stato proprio il cane dell’imputato a ferire Visentini.
3.5. Si denunzia, infine, violazione degli artt. 133 e 62-bis cod. pen., per non avere il giudice spiegato la decisione di applicare la multa nella misura di 300,00 Euro e di non concedere le attenuanti generiche, nonostante l’incensuratezza dell’imputato ed il comportamento processuale, avendo peraltro per due volte Ti. Bo. offerto una somma alla parte lesa.

Considerato in diritto

1. Il ricorso, al di là delle categoria giuridiche apparentemente evocate da Ti. Bo., risulta basato (v. infatti i punti nn. 3.1., 3.2. e 3.3. del “ritenuto in fatto”) soltanto su dedotti difetti motivazionali, che in realtà non sono sussistenti, in quanto il ricorrente, a ben vedere, auspica una diversa ricostruzione degli accadimenti, ipoteticamente favorevole alla difesa dell’imputato, a fronte di una ricostruzione del giudice di merito che, sintetica siccome normativamente previsto (art. 32, comma 4, del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274), appare logica ed immune da vizi sindacabili in sede di legittimità.
1.1. Secondo la dinamica congruamente ricostruita dal giudice di pace (v. p. 2 della sentenza impugnata), non è ravvisabile né l’interruzione del nesso causale né l’intervento del caso fortuito (punti nn. 3.1. e 3.2. del “ritenuto in fatto”), che deriverebbero, secondo la – meramente assertiva – prospettazione del ricorrente, dall’avere la persona offesa scelto di fare una passeggiata in campagna, né violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. (punto n. 3.3. del “ritenuto in fatto”) né, infine, dell’art. 672 cod. pen. (punto n. 3.4. del “ritenuto in fatto”): in particolare, si prende atto che, secondo gli accertamenti svolti dal giudice di pace, dalla omessa custodia dell’animale sono derivate lesioni, certificate da sanitario, a Ma. Ve., a causa del morso patito da parte del cane pastore tedesco di Ti. Bo., uscito dalla proprietà di Bo. ed entrato in contrasto con i cani della persona offesa e dei suoi accompagnatori.
1.2. In relazione al complessivo trattamento sanzionatorio (punto n. 3.5. del “ritenuto in fatto”), la censura è radicalmente destituita di fondamento, per le ragioni che di seguito si illustrano.
1.2.1. Il giudice di merito, infatti, ha scelto di applicare la pena pecuniaria prevista in alternativa a quella detentiva dall’art. 590, comma 1, cod. pen. (pena edittale: reclusione fino a tre mesi o multa sino ad Euro 309,00), in misura quasi prossima al massimo: al riguardo appare sufficiente il richiamo alla congruità della – assai modesta – sanzione pecuniaria applicata.
Infatti la Corte di legittimità ha più volte precisato che la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (così Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Se., Rv. 256197; in conformità, tra le altre, Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, Ta. e altro; Rv. 256464; Sez. 3, n. 10095 del 10/01/2013, Mo., Rv. 255153); la specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo “pena congrua” o “pena equa”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (così, tra la tante, Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Sc., Rv. 265283; Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, Pa., Rv 258356; Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, De., Rv. 245596).
Nel caso di specie, il Giudice di pace ha prescelto una pena contenuta nella fascia bassa della forbice edittale, che oscilla tra un minimo di 50,00 Euro di multa ed un massimo di tre mesi di arresto (argg. ex artt. 590, comma 1, e 24, comma 1, cod. pen.), dovendosi in ogni caso ritenere più grave la sanzione privativa della libertà personale rispetto a quella incidente sul patrimonio.
1.2.2. Quanto, poi, alle circostanze attenuanti generiche, posto che le stesse non risultano nemmeno domandate nel grado di merito dalla difesa, che ha concluso per l’assoluzione (v. ultima pagina del verbale dell’udienza del 9 gennaio 2015), deve farsi applicazione del condivisibile principio secondo il quale «Le attenuanti generiche previste dall’art. 62-bis cod. pen. sono state introdotte con la funzione di mitigare la rigidità dell’originario sistema di calcolo della pena nell’ipotesi di concorso di circostanze di specie diversa e tale funzione, ridotta a seguito della modifica del giudizio di comparazione delle circostanze concorrenti, ha modo di esplicarsi efficacemente solo per rimuovere il limite posto al giudice con la fissazione del minimo edittale, allorché questi intenda determinare la pena al di sotto di tale limite, con la conseguenza che, ove questa situazione non ricorra, perché il giudice valuta la pena da applicare al di sopra del limite, il diniego della prevalenza delle generiche diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione della sanzione e non può, quindi, dar luogo né a violazione di legge, né al corrispondente difetto di motivazione» (così Sez. 3, n. 44883 del 18/07/2014, Ca., Rv. 260627; in termini, v. Sez. 3, ord. n. 369 del 25/01/2000, Ri., Rv. 216572).
2. In conclusione, da tutte le considerazioni svolte discende il rigetto del ricorso e la condanna, per legge (art. 616 cod. proc. pen.), del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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