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Non lo sapevamo fino a prima de L’isola dei cani ma quello tra Wes Anderson e il Giappone è il matrimonio perfetto. Lo stile geometrico, rigoroso e sentimentalmente contenuto (che però non significa “freddo”) del regista si accoppia benissimo con la maniera in cui il Giappone è percepito dal resto del mondo, con il suo design minimale, la tendenza a trattenere i sentimenti e a mostrarsi rigorosi, innamorati di regole, tradizioni e rituali. Addirittura anche la fissazione per le divise si rispecchia pienamente nel cinema di Wes Anderson.

Certo quello di questo nuovo film animato in stop motion non è propriamente il Giappone di oggi ma una specie di versione kitsch di un possibile futuro retro anni ‘50 (siamo avanti ma tutto appare come quando eravamo indietro). L’isola dei cani è ambientato in un futuro in cui tutto è andato male e in particolare la guerra eterna tra il clan che supporta i gatti e quello che invece è dalla parte dei cani, i quali, avendo perso, sono stati tutti esiliati su di un’isola da un primitivo sistema di carrucole.

Lì i cani si sono scannati per le poche risorse alimentari e, come in una versione desolata di 1997: fuga da New York, hanno stabilito un loro regno con dinamiche di potere e violenza, tra un ammasso di rifiuti organizzati simmetricamente come solo Wes Anderson potrebbe fare.

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Epidemia più isolamento desertico più legge della giungla, L’isola dei cani è il primo film distopico di Wes Anderson, quello in cui parlare di un mondo futuro paradossale è un modo di parlare di quello che viviamo oggi.

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Certo non è propriamente fantascienza (per quanto molta tecnologia sia coinvolta nella lotta dei cani per tornare alla terraferma), ma quei rifiuti ammassati come avevamo visto in Wall-E, solo in scala ridotta e con un gusto maggiore per lo scarto organico, sono costruzioni sofisticate di design, praticamente l’equivalente degli arredi interni degli altri film di Anderson. Quella che in precedenza era carta da parati sempre in armonia con gli abiti dei personaggi, qui diventa una quantità impressionante di scenografie meravigliose costruite con fondi di bottiglie colorati, ammassi di carta o cumuli di immondizia.

È solo uno dei molti dettagli che parlano dell’estrema sofisticazione cui è giunto questo regista che lentamente, di film in film, ha colmato la distanza da marginale autore di nicchia a cineasta mainstream apprezzato da un larghissimo pubblico. L’isola dei cani non è il suo miglior film ma è comunque uno show godibilissimo nella maniera in cui riesce ad usare l’umorismo non per far commedia ma per raccontare di come gli uomini (anche quando sono interpretati da cani) lottino internamente contro la propria natura e stabiliscano rapporti che sono sempre una variazione sul tema di quello paterno.

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Stavolta infatti il padre riottoso e infantile è il bambino, l’unico umano in quell’isola, andato a riprendere il proprio cane Spots e finito in un luogo in cui non capisce nessuno e nessuno capisce lui. Il figlio della situazione invece è uno di questi cani, particolarmente reticente a prendere parte alla grande rivoluzione, eppure anche così pronto a rivedere i suoi assunti. E proprio questo è il potere di Wes Anderson: la maniera in cui riesce ad inserire in Capo (doppiato da Bryan Cranston) una doppiezza immediatamente evidente. In ogni suo attestato di autonomia c’è già il desiderio opposto, chiaro per tutti. In ogni momento del film è già insita la spinta contraria, che poi è la difficoltà che chiunque riscontra nel vivere come vorrebbe o anche solo essere felice (sempre un miraggio nei film di Anderson). Questo, che per ogni altro autore sarebbe un punto d’arrivo cui giungere a fine film, per lui è l’inizio, da lì Capo costruirà la sua avventura controvoglia.

Le contraddizioni del cane protagonista e di quelli che girano intorno a lui come una specie di banda di anziani di provincia dediti ai pettegolezzi, ci parlano dell’umanità e lo fanno tanto con le personalità sofisticate, educate e molto composte tipiche di Anderson, sia con la soluzione prettamente registica degli occhi lucidissimi. Il dettaglio che da sempre gli animatori usano per dare ai loro personaggi un’evidente umanità, qui diventa l’arma di Anderson per farci credere che questi cani siano in realtà sono uomini.

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E forse proprio questo facilissimo e scontato parallelo (in qualsiasi film in cui gli animali sono protagonisti, questi si comportano come esseri umani e la loro storia ci parla di noi) racconta meglio di come abbiamo visto in passato uno dei temi più sottovalutati dei film di Wes Anderson: il contrasto tra istinto e ragione. Questa dialettica così evidente negli animali, che già era il cuore pulsante di Fantastic Mr. Fox, è quella che anima tutti i personaggi della filmografia di Anderson, sempre indecisi tra il loro carattere sobrio e controllato, il loro mondo sofisticato e raggelato, e qualcosa che gli si agita dentro potente. È un desiderio, una voglia o un sentimento inespresso e mal comunicato che i film di Anderson riescono in mille modi diversi a farci intuire tramite le avventure pretestuose messe in campo.

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