Se sei uno scienziato e vuoi sapere se il pene degli esseri umani abbia una storia evolutiva comune a quello di coccodrilli, uccelli e serpenti, può capitarti di dover ricostruire al computer i genitali di un embrione sezionato vecchio cento anni, proveniente da un ignoto rettile della Nuova Zelanda. Per poi scoprire che la tua intuizione era esatta.

Fra gli animali dotati di spina dorsale – i vertebrati, cui apparteniamo anche noi – i peni variano considerevolmente, per dimensioni, forma e numero; alcuni ne sono completamente privi. I maschi dei mammiferi hanno il “classico” pene, così come i coccodrilli, le tartarughe e alcuni uccelli primitivi come gli struzzi e le anatre. Serpenti e le lucertole hanno due emipeni (le due parti che compongono gli organi riproduttivi di alcuni maschi di rettili e pesci), anche se ne usano uno alla volta. E la maggior parte degli uccelli non ce l’ha affatto.

Nonostante tali differenze, in tutti questi gruppi lo sviluppo del pene inizia grossomodo alla stessa maniera. L’embrione presenta due protuberanze genitali: due gruppi di cellule che si trovano accanto a quelle che alla fine produrranno gli arti posteriori. Queste protuberanze diventano sempre più grandi, andando a formare

i due emipeni, o si fondono negli animali che hanno un pene solo. Negli uccelli senza pene, non avviene niente di tutto ciò.

Tali analogie suggeriscono che il pene dei vertebrati si sia evoluto soltanto una volta, e da lì si sia modificato o diversificato nei diversi gruppi. Ma c’è anche un’ipotesi alternativa: che cioè il progenitore di tutti i vertebrati non fosse dotato di pene, e che nelle diverse linee evolutive l’organo – e le protuberanze genitali da cui si forma – si sia poi evoluto con caratteristiche diverse e in modo indipendente nei diversi gruppi tassonomici.

Per rispondere a questi interrogativi – o perlomeno, per cercare di arrivare a una soluzione – Thomas Sanger dell’Università della Florida ha pensato di studiare il tuatara, un rettile della Nuova Zelanda molto simile a una lucertola, lungo più o meno come un avambraccio e dal dorso ricoperto di squame. Le due specie esistenti sono le ultime sopravvissute di un antico gruppo di rettili che si è separato da serpenti e lucertole circa 250 milioni di anni fa e che da allora si è evoluto in parallelo. I tuatara adulti non sono dotati di pene: Sanger si è posto l’obiettivo di capire se anche nei loro embrioni fossero presenti le due protuberanze genitali.

Poiché i tuatara sono in via d’estinzione, non è facile procurarsene un embrione. Ma i collezionisti d’epoca vittoriana non avevano di queste preoccupazioni: alla fine dell’Ottocento, lo zoologo inglese Arthur Dendy raccolse un gran numero di embrioni di tuatara, donandone quattro all’embriologo americano Charles Minot. Con la massima cura, Minot li sezionò fino a ottenere porzioni sottilissime (solo otto millesimi di millimetro di spessore), e li conservò su vetrini da laboratorio.

Consultando le note lasciate da Minot, Sanger ha scoperto che uno degli embrioni, identificato con la dicitura “Campione 1491”, si trovava al giusto stadio di sviluppo: era lì che bisognava guardare per capire se anche i tuatara hanno le protuberanze genitali. Così Sanger ha ripulito i vecchi vetrini, li ha fotografati, e usando il computer ha messo insieme tutte le sottili “fettine”, ricostruendo l’immagine digitale del Campione 1491. L’intuizione era giusta: l’embrione ricostruito è dotato di protuberanze genitali, proprio dove Sanger si aspettava di trovarle.

Dunque lo sviluppo dei genitali del tuatara somiglia a quello dei galli e di molti altri uccelli: le protuberanze genitali cominciano a crescere, ma presto crollano su se stesse nel momento in cui le cellule che si trovano al loro interno muoiono. La conclusione è che le protuberanze dovessero essere presenti anche nell’ultimo antenato comune di tutti i vertebrati; il quale, probabilmente, era dotato di un pene vero e proprio.

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