Mi sono stabilita a Pechino nel 2006, dopo avere finito gli studi a Singapore: da allora sono passati esattamente dieci anni. Nella Pechino di allora, oltre il quarto anello era tutta campagna. Abitavo in un complesso condominiale molto periferico, con appartamenti piccolissimi di una sola stanza. Ma erano condomini nuovi, rallegrati da terrazzini coloratissimi. All’epoca case di quel tipo, destinate ai giovani, erano ancora assai rare: sarebbero via via aumentate negli anni successivi, con l’arrivo in massa di ragazzi nella capitale.
I condomini erano abitati principalmente da single, soprattutto ragazze. Per la maggior parte non avevano bisogno di lavorare e di norma dormivano fino a mezzogiorno. La mattina tutto era avvolto nel silenzio e, se si aprivano le finestre, si potevano sentire le scope degli spazzini sulle strade. Tutto si risvegliava nel pomeriggio, con i cani che prendevano ad abbaiare.
Quasi tutte le ragazze possedevano un cane, quasi tutti i cani avevano lo stesso aspetto: microcagnolini da compagnia color caffè che somigliano a orsacchiotti, tanto che sono chiamati, appunto, “cagnolini Teddy Bear”. Negli anni della Rivoluzione Culturale, la Cina aveva promosso una grande campagna contro i cani domestici e soltanto a partire dagli Anni ‘90 erano ricomparsi in alcune case di città. All’epoca, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la crisi dell’industria leggera aveva fatto nascere la prima generazione di commercianti cinesi sui treni che da Pechino partivano per Mosca: portavano lì giacche di pelle e cappotti imbottiti di qualità scadente e riportavano indietro cagnolini di razza. I primi cani da compagnia arrivarono a Pechino così. Un mio parente pechinese ne aveva tenuto uno e pare che gli dovesse dare ogni giorno cento grammi di cioccolato.
La moda dei cani Teddy Bear scoppiò all’improvviso soltanto dopo il 2006. Sotto i nuovi complessi residenziali, tra uno studio di manicure e l’altro si aprivano negozi di accessori e toelettatura per gli animali domestici. La padrona si faceva le unghie alla porta accanto e lasciava il cagnolino per il bagnetto e la tosatura. Questi cani, più sono piccoli e più sono belli. Crescendo, il pelo sbiadisce e può indurre il sospetto che si tratti di bastardi, con grave scorno della proprietaria. Così, quando due ragazze con cagnolino si incontravano durante la passeggiata, ognuna valutava tra sé se sé chi di loro avesse quello più piccolo. Questa visione patalogica della bellezza mi faceva pensare all’antica mania per i piedini fasciati delle donne. Di fatto questi Teddy Bears, così apprezzati quando sono piccolissimi, sono molto delicati e si ammalano facilmente. Quello di Feifei all’età di un anno cominciò a perdere sangue dalla bocca. Aveva le vene troppo strette e il sangue non circolava. Alla fine morì.
Feifei abitava accanto a me, nel mio condominio. Ci eravamo conosciute nel negozio di video e cd sotto casa. Nella Pechino di allora, i negozi che vendevano video pirati non erano stati ancora vietati per davvero. Bastava sapere il titolo e, per sette-otto kuai, trovavi qualunque cosa, dalle pellicole in bianco e nero ai film appena usciti. All’epoca nessuno pensava che comprare copie pirata fosse un reato: per tutti i cinefili è stato un periodo d’oro. I proprietari di questi negozi erano tutti degli esperti di cinema. Probabilmente avrebbero saputo recitare i titoli dei film di qualunque regista europeo, dal più recente a ritroso fino al suo primo lavoro, ed erano assai loquaci: gli piaceva fornire indicazioni, spiegazioni e consigli. Se incontravano qualcuno che ne capiva, iniziavano accesi dibattiti e l’angusto negozietto si trasformava in un piccolo cineclub.
Quella volta, quando entrai nel negozio, Feifei stava discutendo con il proprietario sull’interpretazione di un’attrice americana che non avevo mai sentito nominare. Il cagnetto le ballonzolava intorno mordicchiandole i piccoli piedi. Mi inserii nel discorso presentandomi come una spettatrice dalle conoscenze assai limitate. D’un tratto il proprietario tirò fuori una bottiglia di vino rosso e continuammo a bere e chiacchierare, tutti e tre assieme. Feifei aveva lasciato il lavoro in una piccola città dell’Hunan e se ne era venuta da sola a Pechino, voleva tentare l’esame di ammissione al Dipartimento di recitazione dell’Accademia del cinema. Sognava di diventare una grande attrice. Era ovviamente molto bella, ma la sua non era una bellezza docile e stucchevole. Aveva, al contrario, una sorta di energia ribelle. All’epoca pensai che, se le avessero affidato il ruolo della protagonista, sarebbe stato in una storia che finiva male. Quella sera, io e Feifei lasciammo il negozio molto tardi. Giunte sotto casa, mi propose di andare a trovarla a casa: avremmo potuto guardare dei film assieme. Pochi giorni dopo mi presentai alla sua porta con una scatola di pasticcini. Lei mi accolse con una lunga serie di piatti piccanti tipici delle sue terre. Diventammo subito amiche. Allora era abbastanza naturale fare amicizia con i vicini di casa. In seguito, quando il complesso si riempì e i traslochi divennero sempre più frequenti, con un ricambio di inquilini sempre più rapido, per molti quella non fu più “casa”, era soltanto un dormitorio. La gente si affrettava avanti e indietro sotto casa con l’espressione gelida e, anche se ci si incontrava continuamente, non ci scappava né un saluto né un sorriso. Pareva che quel senso di alienazione fosse qualcosa che non poteva mancare nella vita di una metropoli. A un certo punto accadde che un tizio ubriaco, nel cuore della notte, lanciasse il suo cane dal decimo piano. Si diceva perché il cane aveva fatto irruzione all’improvviso mentre quello si stava facendo la doccia. Il cane si era schiantato contro il vetro dell’auto di un calciatore del Guo An, ma non era morto. Fu portato in un ospedale veterinario e sottoposto a svariati interventi chirurgici. Il vicinato si mobilitò, fece una colletta per pagare le spese mediche e vi fu un momento di collettiva solidarietà. Ma, passata l’emozione del momento, la gente si ritrovò più lontana di prima. Fare amicizia coi vicini era diventato pericoloso: chi lo sa, magari l’appartamento accanto era abitato da un pazzo o da un ubriacone.
In quella situazione, l’amicizia tra me e Feifeiera ancora più preziosa: eravamo due ragazze che a vent’anni avevano voluto mettere fuori la testa, appena arrivate a Pechino, con una vita nuova spalancata davanti agli occhi. La nostra amicizia solidale abbracciava anche tutte le speranze riposte nella città: bastava che ci sostenessimo a vicenda, i risultati sarebbero certamente arrivati. Devo precisare che questa amicizia inziava nel 2006, prima delle Olimpiadi di Pechino. Per me, che vivo a Pechino da 10 anni, c’è una linea di demarcazione molto netta: prima delle Olimpiadi e dopo. Le Olimpiadi hanno portato dei cambiamenti significativi in tutte le città che le hanno ospitate, ma credo che in pochi casi siano paragonabili alla trasformazione di Pechino. Da quando la candidatura è stata accolta, nel 2001, è iniziata un’enorme attività edilizia: fino al 2006, le nuove costruzioni si propagavano come un incendio. Se ti capitava di non passare in una certa strada per una quindicina di giorni, quando ci tornavi potevi star sicura che ci avresti visto svettare un palazzo nuovo.
Negli anni successivi, i prezzi delle abitazioni sarebbero aumentati di almeno cinque volte. Se fino ad allora un giovane poteva impegnarsi e risparmiare abbastanza per comprarsi casa, da allora in poi certe idee poteva anche togliersele dalla testa. Vivere e lavorare in questa città è molto difficile: riuscire a rimanerci è già un risultato. Ma all’epoca nessuno si chiedeva se uno sviluppo così rapido fosse sensato: tutto il paese era in fermento e tutta Pechino era in preda a un sentimento di speranza che dava alla testa e contagiava anche i nuovi arrivati dalle periferie, come me e Feifei. Eravamo convinte di essere arrivate nel momento giusto e che la nostra giovinezza fosse in perfetta sintonia con le trasformazioni della città. Sotto la lampada al quarzo di Feifei, nella stanza con la carta da parati a motivi floreali appiccicata alle pareti, mentre bevevamo e guardavamo film abbracciate ai cuscini, io mi illudevo che vivessimo al centro di quel mondo, e avevo ragione perché rappresentavamo davvero la parte più viva e vitale di questa città. Non ho mai chiesto a Feifei come sbarcasse il lunario. Non potevamo certo vivere di sogni, ma lei di che cosa viveva? La sola cosa che sapevo era che usciva spesso la sera, le labbra tinte di un rosso vivo, caracollando sui tacchi a spillo. Scendeva in strada e fermava una macchina. All’epoca la nostra era una zona periferica e in zona c’erano pochissimi taxi, c’erano solo gli abusivi privi di licenza. Verso il tramonto si disponevano in una lunga coda fuori dal complesso: era il momento di maggiore affollamento della zona. Un gran numero di ragazze come Feifei uscivano per andare a qualche festa o per iniziare la loro giornata di lavoro. Sotto quei volti delicati e quel trucco approssimativo c’era una fiduciosa sicurezza: siamo giovani e niente ci fa paura.
Una volta, nel cuore della notte, Feifei mi chiamò al telefono. Quando la raggiunsi stava piangendo, aveva bevuto molto. «Non è niente, non importa », mi disse. Non so perché, in questa città maschile e maschilista, le ferite che pativano le giovani donne come Feifei non si potevano semplicemente spiegare come ferite d’amore. È come se si mescolassero con altre cose: sembravano il prezzo da pagare per essere ammesse in città. Per abbassare il prezzo forse si sarebbero dovute ridurre le aspettative. Le speranze sono come scale protese verso le nuvole: se si sale troppo in alto, scendendo è inevitabile farsi male. Ma in un posto come quello, come si potevano ridimensionare? Da qualunque punto di vista, la fioritura di Pechino era davvero costruita su quelle inestinguibili speranze. Non tutti quelli che erano arrivati in città erano dotati di grande talento, ma tutti avevano enormi ambizioni.
Tutti i pechinesi ricordano senz’altro lo splendore alla vigilia delle Olimpiadi. Il cielo sembrava di un blu sempiterno come il cartellone di una campagna pubblicitaria, non c’era l’ombra di una nube. Non doveva esserci ombra di nube. Così imparammo che anche il cielo e l’aria si potevano comprare. Il nuovo grande stadio, il Nido, si stagliava di fianco alla sopraelevata: i suoi vetri brillanti e tirati a lucido ricordavano la dentatura candida di una stella del cinema, svelata dal suo sorriso. Gli alberi senza ordine sembravano potati da un giardiniere giapponese: in una notte erano comparsi quei tratti zen che non dovrebbero mancare in una cultura orientale. Grazie alle restrizioni imposte alla circolazione delle auto, il traffico era insolitamente scorrevole. Tutti i tassisti si esercitavano con l’inglese: Welcome to Beijing. L’intera città sembrava una giovane donna ritta dentro le stecche del suo corsetto, il respiro trattenuto e il sorriso ospitale rivolto agli stranieri. Ogni respiro provocava dolore, ma quella pena rimaneva muta: era la pena degli addetti che operavano sulle gru sospese nel vuoto mentre Pechino era immersa nel sonno, la pena dei lavoratori venuti dalle campagne, cui era stato imposto di lasciare la città perché non avevano un permesso di residenza regolare.
Durante le Olimpiadi una volta Feifei, fresca di patente, di notte mi portò a fare un giro sulla macchina presa in prestito da un amico. La città era tutta illuminata: erano accese anche le luci dei palazzi di uffici appena ultimati e a quell’ora deserti. I neon fiammeggianti parevano occhi iniettati di sangue, spalancati e splendenti. Sembra un sogno, aveva commentato Feifei. Sapevamo entrambe che era tutto falso, ma purtroppo, per una sorta di sentimento di vanità o di orgoglio, amavamo quella impostura. O, come minimo, consentivamo in silenzio che esistesse. Dopo le Olimpiadi, una dopo l’altra io e Feifei lasciammo quel quartiere e così, poco alla volta, i nostri rapporti si allentarono. Ogni volta che vedevo in tv un’attrice in un ruolo drammatico, che tirava fuori un sorriso tirato e logoro dal volto sotto lo spesso strato di fondotinta, mi veniva in mente Feifei. Anche quando sentivo che una giovane donna era stata ammazzata dal cliente in qualche locale notturno, mi veniva in mente Feifei.
Una città così grande, con i suoi cavalcavia proiettati in tutte le direzioni, alla fine consente ogni possibile esistenza. Spero davvero che Feifei sia diventata la splendida protagonista di un copione del tutto nuovo, che io non ho immaginato. In ogni caso, nell’ultimo istante della sua commedia, direbbe pur sempre: «Non importa, non è niente». (Traduzione di Stefania Stafutti)

CHI È L’AUTRICE Zhang Yueran, nata nel 1982, ha esordito nel 2001 vincendo il concorso di una importante rivista ed è tra i maggiori esponenti del balinghou, corrente letteraria post-Anni ‘80. Figlia d’arte (il padre insegna Letteratura all’Università dello Shandong) è pubblicata anche negli Usa, da Math Paper Press

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