Un assaggio di tasty veal – bocconcini di vitello con riso integrale e pisellini primavera – o un piatto di Choppy Pork – spezzatino di maiale con patate, carote e zucchine? Non parliamo a voi, ma al vostro cane. Dog’s Bistrot propone piatti “che anche il padrone vorrà assaggiare”, compreso uno vegetariano, a base di soia, uova, grana padano e grano saraceno. Tutto fresco, di prima qualità, studiato da una nutrizionista e recapitato a domicilio. Come un Foodora per cani: porzioni già suddivise, per creature di taglia grande, media o piccola, da tirare fuori dal frigo e spadellare al momento. Un servizio studiato per il numero crescente di proprietari indaffarati che a loro volta hanno dimenticato come cucinare per sé, figuriamoci per il proprio cane. Andare al supermercato e prendere a occhi chiusi il bustone all’ingrosso di croccantini anonimi e puzzolenti è ormai indecente. Chi si ostina a propinare junk food o avanzi è al confine del maltrattamento domestico: largo al Pet Power. Oggi gli animali da compagnia (e il dominio si è allargato a comprendere persino maialini nani e iguana) sono considerati non più membri aggiunti della famiglia ma veri e propri figli. Un fenomeno partito all’inizio del secolo scorso quando, con l’introduzione sul mercato di antipulci e lettiere, abbiamo permesso agli animali di entrare in casa. Il diradarsi di relazioni vere a favore di quelle virtuali ha fatto il resto. Abbiamo bisogno di calore.

L'amore in una ciotola

Ne parla Guido Guerzoni, professore di Museum management all’Università Bocconi e “genitore”, insieme con la moglie Noemi, di Pioppo, bracco italiano con il mantello pan di stelle – cioccolato spruzzato di bianco – e l’andatura sgangherata. Testimone privilegiato di una serie di conversazioni surreali con altri genitori di “figli” a quattro zampe, Guerzoni ha scritto un saggio spassosissimo, Pets. Come gli animali domestici hanno invaso le nostre case e i nostri cuori (Feltrinelli). «Mi sono reso conto che il processo di parentizzazione non riguardava mezzo milione di scellerati negli Usa, ma anche gente come me in Italia. Tocca tutti i ceti sociali e i gruppi anagrafici. Chi li fa dormire nel proprio letto, gli fa guardare la tv, gli porta un regalo di ritorno da un viaggio, gli ordina la torta di compleanno con la candelina». E combina persino matrimoni. Come Giuseppe Costa, titolare di Prince and Princess, pet luxury shop di Milano – ma ci sono anche sedi a Porto Cervo e Courmayeur – che si è persino inventato un Tinder per incontri (sul sito princeandprincess. it). Dopo un passato nella moda, è diventato “padre” di otto cani e nove gatti. «Guai a chi me li tocca. Potrei uccidere per il mio cane. Guai se becco qualcuno che dice: “’Sto cagnetto di m…”», racconta, indicando il chihuahua intabarrato che incede aristocraticamente annoiato per il negozio. In termini di haute couture l’Italia ha superato gli Stati Uniti. «Gli americani producono in Cina grandi quantitativi di “abiti”, ma non riescono a cambiare catalogo ogni sei mesi come le aziende italiane For Pets Only e I Love My Dog, che seguono le ultime tendenze», dice Francesca Raffaelli, titolare di Bau per Miao a Milano e “mamma” di tre chihuahua. Il fatto che ci sia in giro gente disposta a sperperare una congrua parte dello stipendio per pullover di cashmere canini a sei fili o tutù (130 euro ciascuno), piumini d’oca (170 euro), borse porta-pet (380 euro), collari “pearl and diamond” Swarowski (89 euro), colonie (senz’alcol) a base di patchouli, cocco e vaniglia (39 euro), calzini antiscivolo (39 euro), sbiancanti per gli occhi, contapassi per controllare il peso, sedute di ozonoterapia nella spa, mobili Ikea per pets, non li stupisce per nulla. «Soprattutto per chi ha figli grandi o non ne ha affatto il rapporto con l’animale è così vicino, morboso, che si è disposti a spendere di tutto per renderlo felice. E a quelli che dicono: “C’è gente che muore di fame” , rispondo che ci sarà sempre, come ci sono i canili pieni di cani abbandonati. Il mondo non cambia perché non spendi per un pullover di cashmere per il cane. L’importante è che tutto sia fatto con amore», riprende Costa.
Ma è il cibo il settore in cui questo processo è più visibile su larga scala. Un mercato che vale 70 miliardi di dollari a livello mondiale, dei quali 20 in Europa, secondo la società di marketing Gfk. «Oggi siamo tutti più attenti a quello che mangiamo e di conseguenza lo siamo anche con il cibo degli animali», dice Francesco Mondadori, founder di Dog’s Bistrot – insieme con Pietro Muzio e Ludovica Bonini – e proprietario di tre cani, il bulldog Porcello e due meticci, Batul e Clotilde. L’idea imprenditoriale gli ronzava in testa da tempo ma, «dopo aver visto la puntata di Report sul cibo industriale per cani e gatti, mi sono deciso a creare un’alternativa sana e non costosa a quello che si vende nei negozi». C’è da aggiungere un dato. «Oggi cani e gatti vivono quasi il doppio degli anni rispetto al passato: con questo allungamento della vita contraggono le nostre stesse malattie, dall’artrite al diabete, dall’obesità ai tumori. Sviluppano le nostre stesse allergie e intolleranze. Ma hanno esigenze nutrizionali diverse. Come potremmo misconoscere chi amiamo presentandogli le solite sbobbe di avanzi, come si faceva in campagna quando ero bambino?», dice Guerzoni, che ammette di viziare Pioppo, intollerante al pollo («nel giro di qualche minuto ha la diarrea»), con pasti ultranaturali (e supercostosi) di origine canadese.

L'amore in una ciotola

Se ne sono accorti anche i grandi supermercati. Nel Regno Unito, Tesco, gigante della grande distribuzione, ha introdotto un banco frigo con una linea di alimenti freschi per cani e gatti di alta qualità, dal pasticcio all’arrosto di selvaggina. «Attenzione a dire “si mangia da cani”», rimarca Guerzoni. «Perché è proprio lì, nel cibo, che umanità e animalità si stanno fondendo». Non si tratta solo di alimenti più sani, biologici, il cui consumo rispecchia le abitudini più sane di noi umani. I nuovi cibi per “figli pelosi” portano in molti casi l’etichetta human grade, vale a dire li potremmo spacciare per pietanze gourmet ai nostri party. «Una volta le industrie lavoravano gli scarti degli allevamenti intensivi», continua Guerzoni. «Ora forniscono carni pregiate: bisonti, alci, fagiani e pernici». A Londra, la primavera scorsa, la catena Pet Pavilion ha aperto nel Bluebird Café, a Chelsea, un ristorante pop up dove i cani potevano ordinare salsicce di cervo con riso integrale e persino macaroon ripieni di gelato: per 30 sterline. Un esperimento che ha riscosso lo scodinzolio frenetico di molti clienti. Ma basta farsi un giro nei negozi di Milano per trovare sugli scaffali leccornie che supererebbero la prova di assaggio degli ispettori Michelin: bocconcini a base di cervo, zucca e mela, quaglia, zucca e melograno per il gatto. Coniglio e patate o branzino e patate conditi con olio di oliva per il cane. Pure sui dessert non si scherza. Friabili biscottini alla patata, pisello e lupino, succulenti baci di dama (15 euro per 110 grammi) e mini cookies a forma di cuore al manzo, vaniglia e cocco (20 euro per 130 grammi), e dal momento che siamo vicini a Natale guai farsi mancare Candoro e Canettone.

Nell’alimentazione dei pet abbiamo proiettato anche le recenti manie per i superfood. Sul sito americano Shinto’s spiccano pacchetti da quattro porzioni di tacchino e quinoa, o di angus e riso nero. The Honest Kitchen offre Prowl, pasto per gatti con pollo allevato a terra, verdure, uova e semi di lino; Spruce, per cani, con anatra allevata a terra e fagioli neri o Brave: pesce e scaglie di cocco. Persino l’acqua del rubinetto non basta più: l’ultima follia è il rito dell’happy hour. Da Prince and Princess nel periodo natalizio scorre a fiumi lo spumante (a base di succo di uva). Da Pet Winery è possibile ordinare lo champagne Dög Pawrignon, per cani, il Meow&Chandon (nella formula c’è anche olio di salmone selvaggio), Purrgundy e Meowsling, per gatti. Da Apollo Peak c’è il Catbernet o il Pinot Meow, da Pet Pavilion il Pawsecco a base di ortica e ginger, mentre gli “astemi” possono contare sulle tisane curative di Woof&Brew (quattro sterline per sette sacchetti) o il cappuccino Pumpkin Spice Latte di The Honest Kitchen. Per non parlare delle preoccupazioni etico-ambientaliste: i marchi Ami, Benevo, Yarrah hanno introdotto cibo vegano, a base di soia, riso, patate, perché anche gli animali rinuncino alla violenza e riducano la carbon footprint. Non poteva mancare la deriva kosher: Evanger – il logo è un labrador con la kippah – produce cibo approvato dalla comunità rabbinica di Chicago.
Guerzoni osserva con amara ironia: «La dolce vita dei nostri amichetti di casa, cui mai torceremmo un ca-pelo, si fonda sulla morte violenta di miliardi di consimili meno fortunati: c’è chi finisce in un superattico e chi in un allevamento per la macellazione intensiva, da cui uscirà in forma di sfarinato, liofilizzato, omogeneizzato, crocchino, bocconcino, snackino o chewing gum». O di piumino e cachemirino.
Ma il mercato del cibo ha anche un risvolto piuttosto dark: costi ambientali altissimi. In America 180 milioni di cani e gatti ingurgitano il 25% di tutte le proteine prodotte. Se venissero raggruppati in una nazione, sarebbe la quinta al mondo per consumo di carne, con una produzione annuale di 64 milioni di tonnellate di gas a effetto serra: come guidare 12 milioni di auto.

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