Uno dei miei sogni più grandi è andare in Argentina. Percorrerla tutta, giù fino a Capo Horn (Cile), dove l’Atlantico e il Pacifico s’incontrano. La Patagonia, la Tierra del Fuego, le orche e il Faro del Fin del Mundo, quello di Jules Verne. Ho calcolato che mi ci vorrebbe un mese. Che ci vorrebbe: a Milo e me. Ho già i sensi di colpa a lasciarlo solo per due giorni per un lavoro a New York, figurarsi se riuscirei a godermi una vacanza senza il mio bimbo peloso. E poi, come gli farebbe bene.

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Milo ha l’ipoplasia cerebellare, sapete: il che vuol dire che non può saltare sul davanzale per guardare gli uccellini alla finestra, né tantomeno posso poggiarvelo io, perché traballino com’è cadrebbe subito di sotto. È come prigioniero: una prigione di lusso, ma senza giardino né balcone dove prendere un po’ d’aria. Anche per questo, da un annetto, ogni volta che posso lo porto con me – come quando di recente, sempre per il mio lavoro, siamo stati due giorni a Sorrento, e complici gli amici di LaF abbiamo passato, armati di collarino e guinzaglietto rossi, ore meravigliose sul terrazzo dell’Hotel Tramontano, davanti il Vesuvio, dove soggiornarono da Goethe a Torquato Tasso e dove Milo, per la seconda volta, ha visto e odorato il mare.

Portate il vostro cane o gatto in vacanza con voi? Quand’ero bambina, non c’era vacanza senza il mio cagnolino Roy. Ricordo quella prima estate, quando lo portammo al mare, e tutte quelle che seguirono. Papà che gli metteva la crema solare sulla testa, che gli “insegnava” a nuotare tra i gridolini divertiti dei turisti («Roy, vai dalla mamma», «Roy, vieni da Cocca», giocavamo a contendercelo in acqua). Mamma che, finito il bagno, faceva la doccia con Roy in braccio, cospargendolo di balsamo all’olio di jojoba perché proprio come lei aveva i capelli lunghi e biondi che si riempivano di nodi (pettinarlo, invece, era compito di papà). Mia madre e anche mio padre, che finge d’essere un duro ma è tutt’altro, non avrebbero mai potuto concepire una vacanza senza Roy, il loro terzo figlio. Così ogni estate, quando esistevano le ferie e quella cosa ormai praticamente sconosciuta chiamata villeggiatura, portavamo Roy al mare. E com’era felice quando papà tirava fuori, insieme alle nostre valigie, il suo trasportino rosso, omaggio del brand di scatolette Felix con cui mamma sfamava i gatti del quartiere (e sì, forse Roy amava il trasportino anche per quello, come rivincita sui gatti che per un’ora al giorno gli toglievano la mamma, ma questa è un’altra storia). Com’eravamo felici.

Lo scrittore francese Paul Léautaud (1872-1956), uomo decisamente eccentrico ma celebre per l’affetto che nutriva per i propri animali, raccontava d’aver avuto almeno, nel corso della vita, trecentocinquanta gatti e centocinquanta cani. Le foto di Doisneau e di Cartier-Bresson lo immortalano, ormai anziano, con sporte piene di pregiatissimi patés per i suoi gatti, per cui spendeva buona parte di ciò che guadagnava. E i vicini di casa lo incrociavano spesso mentre inseguiva un gatto che s’era avventurato fuori dal giardino. Poteva uno così non portarsi dietro i gatti quando andava in vacanza? Naturalmente no. Così, in un volumetto uscito in Italia nel 1983 e oggi purtroppo introvabile (Passatempi, Einaudi, traduzione di Alessandro Torrigiani), Léautaud scrive della villeggiatura dei gatti. Villeggiatura che ovviamente cominciava in treno, in un vagone passeggeri che Léautaud riempiva di ceste con i gatti. «Sono andato a passare qualche giorno al mare», scrive, «in Bretagna, ai confini con la Vandea. Faccio questo viaggio ogni anno, da dieci anni, per accompagnare una comitiva di gatti che vanno a passare l’estate nella proprietà della loro padrona. Il viaggio dura dodici ore. Vi assicuro comunque che si è ripagati della fatica una volta arrivati allo chalet. Appena in giardino, si aprono i panieri. I gatti mettono fuori la testa. cominciano a raccapezzarsi. Si mettono a correre, ad arrampicarsi sugli alberi, ognuno trova il suo solito cantuccio. Sembra che dicano fra sé: “Ci aspettano quattro mesi di felicità”».

Che felicità andare in vacanza con i propri animali. Quando cinque anni fa è arrivato Milo era già un po’ che, perché non potevo permettermelo e poi anche perché in seguito non sono stata bene, non facevo una vacanza. Finché l’estate scorsa non è arrivato un invito: il nonno, mio papà, ci invitava qualche giorno nella casetta presa con la sua compagna in affitto a Vulcano, nelle Eolie. Il mare, il sole: sembrava bellissimo. Io, però, ero preoccupata. «Un gattino disabile in mezzo alla terra?», dicevo a mio padre. «E se ci sono i ragni? E le lucertole? E se ci sono gatti che lo attaccano e lui non può difendersi?». Alla fine, forse perché ero così stanca, mi convinsi, e per fortuna. Perché quei giorni al mare sono stati tra i più belli che io e Milo abbiamo passato insieme. Com’era felice il mio bimbo peloso già a bordo del traghetto, mentre sul ponte, accanto al nonno, guardava i gabbiani. E quando appena arrivati s’impossessò del patio, da cui dominare tutto il circondario senza sporcarsi nella terra, che proprio non gli piace. E il pescetto che gli comprava il nonno, e i riposini sull’amaca, e il bagnetto rinfrescante nella bacinella blu. E se qui a casa i moscerini lo spaventano a morte, un giorno a Vulcano attaccò una mucca – che lo guardò come una mucca può guardare un moscerino fastidioso, compatendolo.

Solo cinque giorni al mare, ma mi hanno insegnato così tanto. Che Milo, seppure disabile e con tanti problemi di deambulazione, è assai più forte di quanto pensassi. Che ha tanto desiderio di natura. Che i figli bisogna lasciarli andare, e se si rompono, pazienza, si riattaccano. Milo al mare è più bello e più felice, e quest’anno voglio portarcelo di nuovo. E poi chissà, magari un giorno faremo anche un viaggetto insieme – anche se non stressante come l’Argentina, che soltanto di volo ci vogliono quattordici ore e per un gatto sono davvero tante.

Ma che vacanza sarebbe senza i nostri animali?

4 luglio 2018 (modifica il 4 luglio 2018 | 09:25)

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