… ma la difesa non sembra in favore degli animali in genere, tra cui si contano anche mosche e zanzare trze-tze, ma solo di quelli che fanno compagnia all’uomo nelle dure e tempestose notti d’inverno, accanto ad un fuoco acceso nel camino del salotto, oppure vivono come “La gatta sul tetto che scotta”, tetto non abbastanza caldo per non farla miagolare dietro una finestra alle ore più impervie della notte purché la si faccia entrare in casa, al riparo.

Gli inglesi, arrivati in vacanza nella terra italica, da loro creduta civile per effetto di ampia letteratura a cui sono esposti in patria, inorridiscono quando gli si offrono bistecche equine: si guardano tra di loro con schifato disprezzo per la proditoria offerta, essendo il cavallo per loro un animale domestico come per noi il cane.
Solo da noi il cavallo passa per matto e dunque diviene commestibile, come d’altra parte avviene in Cina con il cane, e in Thailandia con le locuste.

Non si capisce insomma perché il pollo debba perire impunemente, mentre il cane possa invece mangiare seduto a tavola con l’homo sapiens sapiens, leccando nel piatto del benefattore mentre questi si gira a prendere una forchetta.
Non visto, piscia sulla gamba del tavolo perché la padrona di casa ha preteso dalla cameriera filippina che disinfettasse ben bene pavimenti e mobili, tanto che il povero cane è costretto a rimediare in modo istintivo alla crisi di identità provocata dalla sconvolgente scomparsa dei punti di riferimento esistenziali canini.

Ovviamente viene perdonato quasi immantinente, denotando di possedere più di un santo in paradiso, paradiso di cani s’intende.
Se il pollo osasse tanto, sarebbe fulminato in loco con la velocità di un Flash, supereroe da fumetto.
Figuriamoci se si comportasse come quello descritto da Gadda nel suo “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”, il quale beatamente spargeva le sue franche deiezioni “ad libitum” su mobili e coperte.

Il cane invece, dopo aver scavato e ruzzato in giardino, viene invitato a pranzo senza nemmeno che gli si chieda di lavarsi le zampe prima di sedersi al desco apparecchiato.

A questo punto immagino che gli amanti dei cani siano già pronti a lanciarmi le maledizioni più oscure, ma a tutti loro chiedo che si trattengano, ché se lo facessero sbaglierebbero bersaglio, non solo perché anch’io amo i cani come amo altri animali, ma anche perché l’errore non sta certo nel voler trattare i cani da cani, com’io ho sempre fatto senza per ciò sentirmi in colpa.

Or dunque, tutta questa prosopopea pro-animali, che vede impegnati persino i politici più attempati e mal dentieruti alla caccia di un consenso che non potrebbero ottenere altrimenti, non solo è stucchevole perché nasconde il solito egoismo umano, teso sempre a santificare l’utile, ma è anche fuorviante perché cela un fenomeno disdicevole che percorre, ignoto e incontrastato, anche i flussi più culturalmente elevati dell’opinione pubblica del bel paese.

Diceva Sciascia:Quando c’è in giro tanta pietà per gli animali, pochissima ne resta per l’uomo” e nonostante io non veda in giro così tanta pietà per gli animali, altrettanto poca pietà vedo per gli uomini, uccisi come cani in discoteche-pollaio sotto gli occhi guardoni di centinaia di “smart-phone” pronti a filmare la morte solo per gusto feticistico da voyeur post-moderno.

Insomma stiamo assistendo ad una specie di ribaltamento, non si dica per favore rivoluzione, in cui, sia legalmente che fattualmente, si preferiscono gli animali agli uomini.
E dico legalmente perché ormai è prassi giuridica andare immediatamente in giudizio (o quasi immediatamente, comunque siamo sempre in Italia) per maltrattamento di animali, mentre si arriva alla prescrizione se il maltrattamento lo subisce una donna.

Capisco che molti pensano le donne inferiori all’uomo, ma che una civiltà giuridica più che bimillenaria sia infettata da questo morbo anti-umano è segnale di decadenza tanto forte quanto ignorato.

Le ragioni di tutto questo non possono che essere nell’uomo
, ed essere inscritte in quella fuga dalle responsabilità tanto più grande quanto più cresce la complessità della società.
Fuga che crea in molti quel particolare analfabetismo affettivo che anestetizza l’anima e le impedisce di vedere nel prossimo un essere umano degno di pietà.

I cani e i gatti, gli agnelli e le tartarughe
implicano meno impegno emotivo, meno impegno finanziario, meno impegno in generale nel tempo.
Si considerino le enormi difficoltà di adozione di un orfano, un essere umano privato del massimo bene dei genitori senza colpa e in tenera età, il quale può marcire per anni in un edificio inospitale e privo di amore senza che nessuno si muova, a causa di una legislazione tutelante che, in vero, è tutelante solo degli adulti; legislazione che dell’amore non tratta né saprebbe trattarne, non ne parla né saprebbe parlarne. Tutto questo non è solo disincentivo immorale, perché pubblicamente alimentato, ma anche segno dei tempi come fin qui ho voluto esplicitare.

E la questione in fondo è tutta qui, l’uomo preferisce tutelarsi piuttosto che “rischiare” di amare un altro essere umano, perché donare, com’è l’amore nella sua forma più sublime, non ha più senso in una mondo in cui c’è sempre un ritorno atteso, e spesso preteso.

Eppure si nasce e si muore
e, volenti o nolenti, si è costretti a cedere il passo a chi ci segue, ma la cura, ossia la premura, l’attenzione che solo l’amore permette di comprendere, non sono più attitudini consapevoli dei singoli.

Sarebbe importante allora che le filosofie, più che le religioni, riportassero il senso della vita nella via più saggia, che non è quella che promette il paradiso della tecnica, tanto angosciante quanto il nulla assoluto.

Filosofia nichilistica quest’ultima che disegna sperdute cime montane su cui relegare ciascuno la propria anima, illudendola che guardare il mondo dall’alto tramite uno smart-phone sia fattore di estrema potenza, mentre invece si tratta della solita gabbia dorata in cui il senso della vita umana, isolata, non può che trasformarsi in una vita da cani, mentre quella dei cani non può che sostituirsi a quella umana.

Leretico

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