Il libro appena pubblicato da Roberto Marchesini, Il cane secondo me (Sonda), si struttura attorno all’idea che “oggi il cane è condannato a stare sempre al posto di qualcos’altro. Un cane metafora a cui abbiamo tolto la facoltà di parola”. Così, proprio negli anni in cui i cani sono dappertutto, e possono seguirci quasi ovunque, quanto sembra sfuggire è la loro reale identità. E, di conseguenza, il motivo per cui li teniamo al nostro fianco. 

C’è chi mi dice: “A che serve un cane?”. La domanda è insopportabile, indubbiamente, anche perché si accompagna all’idea che, se non servi a qualcosa, non hai senso. Ma è anche una domanda che fa germogliare riflessioni, non fosse altro che per sopire insidiosi sensi di colpa. Un cane, in effetti, per come lo tengo io, per come lo teniamo quasi tutti noi, non ha alcuna utilità. 

Mi capita sempre più spesso, nella confusione torbida di giornate inzeppate di cosiddetti impegni, di pensare a cosa faccia il mio cane in casa. E null’altro che mi venga alla mente, se non la sua inesauribile e sonnacchiosa attesa di qualcuno di noi, di uno della famiglia. Leo è un Jack Russell di tre anni, focoso, affettuoso, abbaiatore professionista. So che amerebbe correre per i boschi che ci circondano, so che vorrebbe dedicarsi alla caccia di tutto quanto transita rasoterra. Ma so soprattutto che lui vorrebbe stare con me, addosso a me, sentendo con tutto il suo minuscolo corpo che io sono insieme a lui. Invece io non ci sono, per ore intere, per giorni, per quella striscia di niente che forse è il suo tempo (o la sua idea del tempo). Cosa proverà a far parte di una realtà intermittente, secondo un esserci e non esserci che immagino gli risulti incomprensibile? Cosa penserà di una realtà popolata da altri viventi a cui non può rinunciare, che lui adora, ma che, per tutta risposta, lo rinchiudono in un appartamento e al massimo gli concedono una cuccia su cui gli permettono di trascinare le ciabatte? 

Il mondo è pieno di cani che stanno soli per ore, che sono maledetti quando abbaiano, che sono mal sopportati quando è evidente che devono uscire di casa per soddisfare le loro necessità. Il cane borghese, il cane status-symbol, il cane specchio delle nostre attitudini non può uscire dai confini che gli abbiamo imposto. Non può tornare “a fare il cane”, degradandosi nella bestialità. Il cane ci deve riedipizzare incessantemente, ci deve far rimanere uomini, scrivevano Deleuze e Guattari. Lui come noi. Senza mai ritornare dietro alla linea d’ombra. 

Ho sentito, in uno dei miei abituali esercizi di ascolto delle chiacchiere d’altri, una donna che diceva : “Ho visto un cane giocattolo, è piccolo, non sporca, non è un impegno, non fa rumore, non devo portarlo in vacanza. Cosa c’è di meglio?”. Il ragionamento (logoro) ha una sua efficacia: piuttosto che ridurre il cane a trastullo che non risponde ai comandi, prendiamolo subito così. C’è più sincerità, almeno. Perché allora continuiamo a comprare cani? E, di rimando, perché i canili sono pieni di cani abbandonati? Di nuovo il quesito: “A che serve un cane?”. Forse davvero solo ad attenderci? 

Perché io stesso non ho potuto fare a meno di avere un cane in casa dopo la morte di Osvaldo, il segugio? Si tratta solo del soddisfacimento di uno sfizio? O il cane rientra tra i “complementi” indispensabili alla vita di quella parte dell’umanità occidentale contemporanea, lievemente animalista così come è lievemente colta e lievemente progressista? O, ancora, il cane è il gingillo da esibire? O, addirittura, il figlio che rimane per sempre piccolo? 

Marchesini in questo e in altri suoi libri ci svela l’altra faccia del rapporto uomo-cane, proprio quella che oggi si è persa, smarrita nelle nebbie del fraintendimento, a cui concorrono libri zuccherosi di “padroni” amorevoli e film che antropomorfizzano il cane, facendolo macchiettistico interprete di umani caratteri. 

La sua convinzione è che sia necessario riannodare la relazione tra uomo e cane. Là dove c’è una relazione c’è una condivisione di tempo e di spazio. C’è il sentirsi parte di uno stesso mondo. C’è il darsi agli altri. Se questo non avviene, dipende dall’ “individualismo imperante”, a causa del quale “tutto il proprio tempo orbita attorno all’espansione del sé e non all’accoglienza dell’altro”. “L’individualismo porta a considerare gli altri come strumenti o prodotti di cui disporre e fruire, non propriamente delle alterità con cui costruire delle condivisioni e delle negoziazioni”. Detto altrimenti: “Per educare occorre credere nella relazione”.

Le persone desiderano avere un cane, ma, il più delle volte, ignorano totalmente cosa sia effettivamente un cane. Questo è il nostro problema, il nostro “peccato capitale”: “Non comprendere il valore del nostro rapporto con le altre specie”. Abbiamo dimenticato quanto questo rapporto ci abbia reso uomini. È stato il cane che ha trasformato l’uomo da “animale chiuso e statico nella propria bolla di specie, in una sorta di ibrido instabile, eccentrico e bisognoso dell’apporto esterno”. “Senza la sua presenza difficilmente si sarebbero sviluppati le organizzazioni di squadra, la domesticazione degli erbivori, le pratiche venatorie, la ricerca su pista, l’allargamento degli spazi abitabili, la costruzione di rotte migratorie”. Ma c’è qualcosa di più decisivo. “Quando l’essere umano inizia a comprendere che il farsi animale, ossia l’imparare da altre specie, è vantaggioso, perché accresce le strategie di sopravvivenza, questo apre la strada ad un diverso modo di abitare il pianeta”. Il percorso tracciato da Marchesini è ampio e affascinante: la storia della nostra specie è anche quella delle specie con cui abbiamo stabilito legami. Non è la banalità dell’ “anche l’uomo è un animale”, ma qualcosa che scende più in profondità, smontando certezze, ristabilendo consonanze.

I distratti e indaffarati proprietari di cani contemporanei (tra cui sto io, va da sé) dovrebbero allora ricominciare a guardarlo, il proprio “compagno di specie”. Stare attenti significa comprendere che “esistono i cani e non il cane”. Ovvero che ogni cane – a cui giustamente attribuiamo un nome (e ogni capitolo del libro di Marchesini ruota attorno al nome dei cani della sua vita) – ha un’identità solo sua, frutto di tendenze innate ed esperienze vissute. E che quindi non si può disporre di lui come se fosse una macchina cartesiana, che esclude la sorpresa, l’imprevedibilità, il comportamento fuori dagli schemi. Una macchina su cui non c’è nulla da sapere perché un manualetto ci ha fornito le “istruzioni per l’uso”. 

Ma soprattutto quanto non si può non sapere è che il cane è fatto per collaborare con noi. Deve stare con noi. Fare qualcosa con noi, non importa per quanto tempo. Se è fondamentale che l’uomo sia una guida per il cane, evitando di metterlo “sotto una campana di vetro fatta di coccole e bocconcini”, è altrettanto vero che per essere una buona guida bisogna ogni tanto invertire le parti, dare fiducia al cane e “credere nelle sue capacità di aiutarci”.

Un uomo che gioca o che passeggia col suo cane e lo fa senza pensare ad altro, dedicandosi solo a quel gesto, dimenticandosi di tutto il resto, ha rimesso “indietro le lancette antropologiche”. Guida ed è guidato. È se stesso ed è l’altro. Ed è in questo perdersi che è poi un ritrovarsi, in questo respirare insieme in una dimensione “nomadica e svagata” che sta la relazione, l’unica davvero possibile, tra uomo e cane. 

Ciò che rimane è solo malinconica metafora. 

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