Non on si può certo dire che come regista è un cane (Le regole della casa del sidro e Chocolat). Ma si può certo dire che è il regista dei cani (La mia vita a 4 zampe e Hachiko – Il tuo migliore amico). Ora lo svedese Lasse Hallström (70 anni) ci prova per la terza volta con Qua la zampa!, una storia narrata in prima persona canina da Bailey, un cucciolo che attraversa diverse avventure e diversi proprietari — si reincarnerà in cinque cani — finché non scoprirà qual è, realmente, il suo ruolo nel mondo. Tratto da bestseller A dog’s purpose, nel cast spicca Dennis Quaid, con Britt Robertson, KJ Apa, Peggy Lipton, Qua la zampa! — nella versione italiana la voce del cane Bailey è di Gerry Scotti — esce il 19 gennaio.

Lasse Hallström, lei è cinefilo e cinofilo, come è nato il secondo amore? «Sono cresciuto con i cani, fin dall’età di 7 anni. Ora non ne ho più, ma per oltre 40 anni ho sempre avuto cani intorno a me. Ho sempre avuto una grande empatia per questi animali, per la loro anima e la loro mente. Ancora ora se vedo un cane per strada guardo come si comporta e immagino quello che pensa. È stato naturale essere affascinato da questo progetto e da questa storia».

«Qua la zampa!» è la favola di un cane che non muore mai e vive diverse vite, ricordandosele tutte. Cosa vuole raccontare con questo film? «Il film insegna agli uomini come i cani amano e vivono nel presente. Loro non pensano al passato e non sono preoccupati dal futuro, si godono la vita nel qui e ora, questo è il messaggio del film».

Sono meglio i cani o gli uomini? «I cani sono più affidabili, la relazione con loro è più semplice, è genuina. Visti i nostri leader e la situazione politica che ci circonda è importante aver qualcosa in cui avere fiducia e l’amore incondizionato dei cani è qualcosa che scalda il cuore a noi uomini».

Come è stato dirigere i cani? «Il nostro addestratore li ha allenati per 4 mesi per fare quello che c’era scritto nella sceneggiatura. C’erano tre cani per ogni cane protagonista, due di riserva: se uno era stanco subentrava l’altro. Io spiegavo all’addestratore la scena e lui prendeva da parte il cane: in due minuti gli insegnava a fare quello che avevo chiesto».

Più ricettivi di molti attori… Il film parla anche di reincarnazione: lei ci crede? «Non posso dire di credere veramente nella reincarnazione, non so cosa succeda dopo la morte, ma è una suggestione poetica. Sono diventato sempre più coinvolto in quest’idea proprio a causa di questo film. Il punto è essere aperti a quella magia, che ci sia qualcosa nell’universo che non possiamo spiegare».

Il mondo si divide tra amanti dei cani e dei gatti. Qual è stato il suo trauma con i gatti? «Il mio primo amore fu un gatto, avevo 5 anni e ne trovammo uno in una casa che avevamo affittato in campagna. Poi tornammo a Stoccolma e fui costretto a lasciarlo».

Quindi è passato ai cani, anzi al cane: il chow chow. «È diventato il cane di famiglia, ne abbiamo avuti 5 di fila. Appena uno moriva ne prendevamo un altro per superare il dolore della perdita».

Cosa hanno di speciale i chow chow? «Sono riservati, hanno la lingua blu e sono un amore da abbracciare. Non vanno in giro a leccare le persone: amano la loro famiglia ma sono sospettosi con gli estranei».

Ha avuto due nomination all’Oscar: è più il rimpianto di non aver vinto o l’orgoglio di esserci stato? «È stato meraviglioso essere nella lega dei nominati, non mi lamento di non aver avuto la statuetta, forse sarebbe stato troppo vincere…».

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