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 di Marco Marino . Dopo la curatela de «L’anima degli animali» (Einaudi, 2015, cocuratore Roberto Pomelli), il professore Pietro Li Causi, responsabile dell’unità di ricerca di Palermo del network «GDRI Zoomathia (Transmission culturelle des savoirs zoologiques – Antiquité-Moyen Âge)», ritorna a parlarci del ruolo che rivestiva il mondo animale in epoca greco-romana con il suo ultimo lavoro «Gli animali nel mondo antico», recentemente pubblicato da Il Mulino.

 Nell’introduzione del saggio leggiamo che lo studio degli animali nel mondo antico è stato a lungo ritenuto «ingiustamente marginale», immeritevole di indagini: da cosa nasce, allora, questo ritrovato interesse? E quali sono le ragioni che hanno spinto lei in questa ricerca?

Non parlerei di un ‘ritrovato interesse’ per lo studio degli animali nel mondo antico. Direi anzi che questo interesse è un fatto del tutto recente e nuovo, che in Italia si manifesta per la prima volta alla fine degli anni ’90 con quella monografia seminale di Maurizio Bettini che è stata Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi (Einaudi 1998). Anche sulla scia di lavori come questo si era formata, già nei primi anni ’00 una discreta tradizione di studi, soprattutto in Italia e in Francia (penso a Cristiana Franco, o ad Arnaud Zucker), che però, anche per ragioni meramente ideologiche, solo recentemente è stata ufficialmente riconosciuta dall’accademia italiana. Bisogna del resto pensare a quella che per secoli è stata la temperie culturale egemone nel mondo occidentale. Semplicemente, all’interno di un paradigma come quello umanistico – che, prima ancora che con l’affermarsi del post-modernismo, in parte era entrato in crisi già con le prime rivoluzioni industriali – gli animali erano visti come i meri pezzi di arredamento di un fondale – quello della natura – che era percepito come pertinenza esclusiva dell’uomo. All’interno di questo paradigma, non si osava neanche pensare che una cultura potesse costruirsi, in modo coniugativo, anche come conseguenza dei suoi rapporti con i propri animali, o addirittura che anche certi animali non umani potessero sviluppare una loro cultura. Le radici di un tale modo di pensare sono ben spiegate nell’ultimo libro di Leonardo Caffo (Fragile umanità, Einaudi 2018), che mostra come due dei più grandi cambi di paradigma che la cultura occidentale abbia conosciuto, la rivoluzione copernicana e il darwinismo, pur segnando profondamente la storia delle scienze dure, abbiano di fatto inciso poco sugli atteggiamenti diffusi: se Copernico scopriva il nostro essere ‘decentrati’ nel cosmo, non per questo si era poi messo realmente in discussione l’antropocentrismo; se da un lato Darwin provava la nostra parentela con le altre specie animali, dall’altro noi Europei abbiamo continuato per secoli a prendere in considerazione solo quei pochi umani che erano immediatamente assimilabili a noi. In altri termini, la marginalizzazione delle altre specie viventi, assieme alle quali ci siamo evoluti e con le quali abbiamo condiviso pezzi importanti di storia culturale, è stata, e in parte è ancora, frutto di un anti-specismo di fondo che potremmo definire per certi versi ‘epistemologico’ prima ancora che etico. Per il resto, mentirei se dicessi che quando ho cominciato a studiare la zoologia antica avessi già le idee così chiare. Come spesso capita, le scoperte, le intuizioni, le piste di ricerca originali nascono per puro caso. All’inizio di tutto c’è stato, più che altro, un vago senso di fascinazione per il fantastico. Tutto è cominciato nel 1998. Avevo da poco vinto la mia borsa di dottorato all’Università di Palermo e avrei dovuto portare avanti un progetto sulla nozione di ‘finzione’ nella letteratura latina. A stravolgere i piani è stato un evento occasionale, quasi un’epifania. Mi trovavo proprio a Marsala, nella libreria Pellegrino di via XI maggio, e l’occhio mi era caduto su due libri che erano esposti l’uno accanto all’altro. Erano il Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges e l’edizione BUR del De natura animalium di Eliano curata da Francesco Maspero. Li ho comprati entrambi. Poi è venuta una serie di altre letture (le opere biologiche di Aristotele, i trattati di Plutarco sugli animali, Plinio il Vecchio, Porfirio) e quindi la stesura finale della mia prima monografia, dedicata agli animali ‘paradossali’ ed esotici del mondo antico. Si intitolava Sulle tracce del manticora, ed era stata pubblicata dalla casa editrice Palumbo nel 2003. Per il resto, se proprio devo confessare uno dei motivi per cui, anche dopo il 2003, ho continuato a lavorare – pur aprendomi ad altri ambiti di ricerca – sulla zooantropologia antica, è stato anche per un effetto di… ecco, la chiamerei ‘nostalgia’. Ho passato tutti i mesi estivi della mia infanzia nella fattoria dei miei nonni materni, nei pressi di Segesta, e gli animali sono stati fra i miei primissimi compagni di giochi. Diciamo che studiare certi temi, in fondo, è sempre stato anche un modo per tornare in contatto con i miei ricordi più felici.

 

 Cos’è la zoopsicologia? In che modo ci aiuta a comprendere le relazioni fra noi e il mondo animale? 

Sono denominati ‘zoopsicologici’ quei testi dell’antichità che si occupano del funzionamento della psyche (noi forse oggi diremmo della ‘mente’) degli animali. Pensiamo, ad esempio, al Bruta animalia ratione uti (“Anche gli animali usano la ragione”), al De sollertia animalium (“L’intelligenza degli animali”) e al De esu carnium (“Il carnivorismo”) di Plutarco. Come rivelano i titoli stessi che sono stati attribuiti dalla tradizione, in questi trattati si intende dimostrare che anche gli animali sono muniti di forme di intelligenza e che, come gli uomini, sono capaci di percepire il dolore, e che quindi, proprio per questo, devono diventare oggetto di un trattamento più ‘umano’. Al di là delle apparenti analogie, sbaglieremmo però a vedere in Plutarco un antesignano dell’animalismo contemporaneo: non solo, infatti, questo pensatore sembra consigliare la dieta vegetariana unicamente ai filosofi (e non alle masse), ma per di più, in un’ottica di ‘favoritismo di specie’, egli propone il suo modello di ‘filantropia’ solo per quegli animali prossimi all’uomo (i buoi, i cani, i cavalli), mentre invece giustifica – come molti altri ‘animalisti’ antichi, del resto – le guerre senza quartiere contro le bestie considerate feroci o nocive. Per Plutarco, che non può ovviamente conoscere i principi dell’ecologismo contemporaneo, lo sterminio dei lupi, delle tigri e degli orsi sarebbe in altri termini da considerare quanto meno legittimo. Il che significa che da opere come il De sollertia animalium o il Bruta animalium ratione uti noi non possiamo trarre ‘aiuti’ diretti. È ovvio che scopriamo di più sul funzionamento della mente animale dagli studi di etologia e di psicologia comparata contemporanei che da Plutarco. E del resto, nei testi antichi non troviamo mai spunti e insegnamenti immediatamente spendibili nel mondo odierno, per il semplice fatto che questi testi si trovano a rispondere a problemi che non sono più (o non sono ancora) i nostri. Autori come Aristotele, Teofrasto e Plutarco non possono spiegarci come relazionarci con gli animali. C’è però qualcosa di molto importante che possiamo imparare indirettamente dal loro modo di riflettere su di essi: studiare questi autori e i loro trattati è un modo di vedere come funziona – chiamiamolo così – il ‘lavoro di costruzione dei quadri culturali’. In particolare studiare i loro testi ci mostra come la nozione stessa di cultura si costruisca sempre sulla base di ‘etero-riferimenti’, ovvero relazionandosi in modi diversi con quelle forme di alterità (animali compresi) da cui – sul piano simbolico – magari ci si vuole distinguere. Scopriamo cioè che l’umanità e l’animalità stesse non sono date a priori, ma sono frutto di costruzioni artificiali che mutano nel corso del tempo e dello spazio, e che possono essere sempre negoziate. In altri termini, studiare gli animali degli antichi è un modo di studiare le loro cornici culturali di riferimento; e studiare le cornici di riferimento di culture lontane da noi, nel tempo e nello spazio, è già un modo di riflettere sulle nostre stesse cornici, di uscire da esse, di guardarci dall’esterno e di prendere consapevolezza di noi stessi in maniera critica, diventando disponibili all’idea stessa del mutamento. Il giro da fare è lungo, ma l’utilità – in termini di consapevolezza e di guadagno, anche politico – è massima.

 

A Lilibeo – l’odierna Marsala – è stata scritta una delle più importanti opere sulla dieta vegetariana, il De Abstinentia carnium del filosofo Porfirio. Potrebbe parlarcene? 

È vero. Sembra che Porfirio abbia scritto proprio a Lilibeo uno dei trattati filosofici più importanti dell’antichità. E purtroppo sembra anche che i Lilibetani di oggi abbiano perso memoria di questo fatto. Ad esempio – sia detto per inciso –  non mi risulta che sia dedicata alcuna via a questo filosofo nell’odierna Marsala. Filosofo neoplatonico, allievo di Plotino, Porfirio arriva in Sicilia per curarsi da una profonda depressione, e si installa – probabilmente – nei pressi dello Stagnone. Qui scrive il De abstinentia, che dedica a un amico che ha deciso di abbandonare la dieta vegetariana imposta dalla scuola plotiniana. Il suo trattato è una sorta di grande summa del sapere etologico e zoopsicologico dell’antichità, e in parte riprende molti degli argomenti già elaborati da Plurarco, cui però si aggiungono spunti tratti dalle tradizioni religiose di altri popoli (ad esempio lo zoroastrismo, o anche la tradizione egizia). Porfirio riconosce agli animali forme di intelligenza e di linguaggio e, come Plutarco, riconosce in essi la capacità di percepire il dolore. Il motivo per cui invita il proprio destinatario ad astenersi dal consumo carneo non è però direttamente legato al rispetto delle altre specie, bensì ad un ideale ascetico che prevede la purificazione dell’anima e il distacco dalle scorie materiali e corporee del mondo da parte di chi aspira alla saggezza. In altri termini, anche in Porfirio, come in Plutarco, si propone una forma ‘antropocentrata’ di animalismo, buona solo per i filosofi e difficilmente (o per niente) praticabile per gli uomini comuni.

Come veniva percepita – e giudicata – la scelta vegetariana dalle politiche del mondo antico? Ad esempio Seneca, in una lettera a Lucilio, scrive: «L’epoca della mia giovinezza era coincisa con l’inizio del principato di Cesare Tiberio: a quei tempi erano condannati i riti stranieri e tra i motivi di superstizione si poneva l’astinenza dalle carni di alcuni animali.»

 Dobbiamo ricordare che uno dei momenti centrali della costruzione delle identità collettive nel mondo antico era il sacrificio. E il sacrificio prevedeva l’uccisione e il consumo rituale di animali prossimi alla sfera domestica (ovini, bovini e suini). Rifiutarsi di mangiare la carne, dunque, non era – come potrebbe essere oggi – una semplice scelta alimentare; era un modo di porsi al di fuori della comunità e di contestarne, per molti versi, i quadri ideologici. Questo, in fondo, è il motivo per cui, se escludiamo forse Empedocle, che secondo alcuni studiosi proponeva forme radicali di astinenza, nessun autore era mai arrivato a contestare fino in fondo il carnivorismo: sappiamo, ad esempio, che alcune comunità pitagoriche praticavano forme alternative di sacrificio, ma sappiamo anche che Pitagora stesso sembrava prevedere la sacrificabilità rituale di alcune specie; Plutarco, poi, riconoscendo che la dieta carnea era ormai diventata il frutto di una abitudine radicata nel tempo, si limitava a suggerire ai suoi lettori semplici esercizi di autoconsapevolezza spirituale, chiedendo loro di sforzarsi di ricordare che gli esseri di cui ci cibiamo hanno comunque vissuto e hanno sofferto; Porfirio, infine, da un lato proponeva una riforma del sacrificio, ma dall’altro lato lasciava chiaramente intendere che solo i filosofi potevano offrire agli dèi il loro pensiero al posto delle vittime sacrificali. Se poi all’interno della cultura greca il filone del vegetarianismo (quasi mai radicale) aveva una sua tradizione secolare, a Roma doveva senz’altro sembrare un vezzo esotico, quando non, appunto, una superstitio (termine che in latino implica una sorta di eccesso di zelo, o di esagerazione).

 È cambiata la nostra idea di convivenza con gli animali domestici? Leggendo il suo libro scopriamo che anche la donnola era un pet!

Chi ha una qualche dimestichezza con gli studi antropologici sa bene che non solo ogni cultura ha i suoi pet, ma anche che lo statuto del pet non è affatto universale. Cerco di fare alcuni esempi molto semplici: una delle cose più stupefacenti per noi occidentali è scoprire che alcune culture africane usano come pet, ancora oggi, non i cani o i gatti, ma i bovini. Ma lo studio del mondo antico ci porta più in là: siamo abituati a pensare i pet come ‘animali-persona’ cui attribuiamo nomi, che ci fanno compagnia e che, poiché entrano con noi in relazioni di mutuo affetto, possono tranquillamente entrare e uscire, ad esempio, dalle nostre stanze da letto. Soprattutto pensiamo che i pet, in quanto ‘animali-persona’, non debbano essere mangiati. Ebbene, in Grecia e a Roma alcuni pet potevano anche essere mangiati. Il che significa che solo in modo approssimativo il loro statuto era sovrapponibile al nostro, e, ovviamente, che in casi come questi ci troviamo di fronte a forme sorprendenti di differenza culturale. Quanto alla donnola, come già aveva mostrato Bettini in Nascere, più che un pet vero e proprio, era un animale che aveva libero accesso alle abitazioni degli umani. Questo perché svolgeva in modo egregio una funzione nella quale solo con il tempo si sarebbe trovata ad essere poi sostituita dai gatti: cacciare i topi.  

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