L’ultima zampata porta l’impronta di James, il gatto di Julian Assange. Mentre il fondatore di WikiLeaks era impegnato a Londra,il felino si è affacciato con colletto inamidato e cravatta regimental a una finestra dell’ambasciata dell’Ecuador, dove è ospite dalla scorsa primavera insieme al suo padrone. Le foto del micio in tenuta diplomatica hanno fatto il giro del mondo, conquistando in poche ore milioni di like su Instagram e Fb. Eppure,nonostante l’alto gradimento dei social e le recenti consacrazioni cinematografiche (ennesima conferma è “Una vita da gatto”, pellicola in cui a dare “voce” a un pasciuto felino è Kevin Spacey), il gatto non è ancora riuscito a strappare al cane il primato di quattrozampe preferito dall’high society.

I corgis della regina Elisabetta II, of course, sono l’emblema dei più vezzeggiati fra i pet di sangue blu: her majesty li tiene sempre con sé dall’età di 13 anni, da quando cioè suo padre Giorgio VI le regalò la capostipite Susan. Da allora i welsh corgis – musetto furbo, zampe brevilinee e un temperamento decisamente espansivo – si sono dati il cambio a corte per ben 14 generazioni: nutriti a filetto e petto di pollo con salsa gravy, presenze uggiolanti durante la luna di miele di lei con Filippo di Edimburgo, imbarcati su navi, elicotteri, carrozze e limousine, gli attuali discendenti, che portano i nomi di Holly, Willow, Vulcan e Candy e vantano un biografo ufficiale, sono stati immortalati da Annie Leibovitz insieme alla sovrana al castello di Windsor in occasione del suo 90esimo genetliaco, e hanno partecipato all’iconica passeggiata in compagnia di Daniel Craig-James Bond nello spot delle Olimpiadi di Londra 2012.

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Elisabetta, però, ha dichiarato di voler rinunciare a nuovi cuccioli, che per via della loro esuberanza potrebbero crearle qualche impiccio di deambulazione.

Ma a mantenere viva la tradizionale cinofilia fra i cortili di Buckingham Palace e i parchi di Balmoral ci penseranno Lupo, il cocker spaniel di Kate Middleton (al quale il piccolo George offre zuccherosi gelati, fra le calienti proteste degli animalisti britannici), e i jack russel del principe Carlo. Questi cani, di cui possiede alcuni esemplari anche Donatella Versace, sono di fatto gli eredi degli aristo-dog amati dalla regina Vittoria, che all’interno della sua ménagerie di bestiole da compagnia aveva però un debole per Dash: un cavalier king che invano si tentò di rimpiazzare con bizzosi volpini e con i carlini (da anni beniamini del couturier Valentino), dei quali i libri di storia riportano il ritratto d’un esemplare accigliato che indossa un collier (de chien) decorato con tintinnanti medagliette.

In effetti, ogni volta che viene collocato in un contesto elitario, il cane non è mai un semplice elemento decorativo, ma si trasforma in un simbolo ricco di valenze: in un celebre ritratto di Carlo V, per esempio, Tiziano rappresenta il re che accarezza il fido Sampere, un pastore irlandese che lo guarda con occhi adoranti, mentre Diego Velázquez usa un cane per portare un tocco di umanità fra le damigelle di “Las meninas”, il capolavoro che Pablo Picasso rielaborò ben 58 volte inserendo al posto dell’originale il suo bassotto Lump.

A parte coloro (per fortuna sempre meno) che adottano lanosi collie scegliendoli in nuance con il grèige dei divani, o infilano nelle it bags certi pechineselli dalle improbabili acconciature, frutto di pazienti toelettature e di balsami veg all’aroma di ribes, nei cuori dei proprietari più nobili il cane – l’animale totem che anche Sigmund Freud, “papà” del chow chow Jofi, teneva nel suo studio durante le sedute – non è mai un toy dog ma un compagno d’elezione che incarna sentimenti intimi e sinceri: non a caso quando si trasferì nel Principato, Grace Kelly ricevette in dono da Cary Grant il barboncino Oliver, in modo che le potesse ricordare anche oltreoceano l’affetto degli amici di Hollywood. Nel bestiario dell’inconscio collettivo, il cane continua a essere percepito come generoso e politically correct, avendo in più il vantaggio di essere (a differenza del lunatico gatto) di buon comando e di rendere meno distanti agli occhi del pubblico i personaggi più inarrivabili: in pratica, una scodinzolante arma di distrazione di massa.

Neville, il bull terrier di Marc Jacobs, è ormai una star e il designer di recente gli ha dedicato una monografia (“I’m Marc’s Dog”, Rizzoli International). Nella prefazione del libro, i cui proventi saranno devoluti a favore dei cani abbandonati, Jacobs scrive: «Grazie a Neville, che ogni giorno mi riempie il cuore di gioia e mi ricorda che l’amore vero esiste». E quando c’è questo amore, è naturale che il pet diventi anche l’emblema vivente delle crociate contro le sevizie sugli animali, di cui sono paladine star come Brigitte Bardot e Drew Barrymore. C’è poi una teoria in base alla quale, a forza di frequentarsi, padroni e cani finirebbero con l’assomigliarsi. Dovrebbe succedere così anche a marito e moglie: ma allora a quale crisi di identità potrebbe andare incontro adesso Jacques, il bulldog di Angelina Jolie e Brad Pitt?

Non è questione di poco conto. Così come non appare irrilevante che, dopo una lunga teoria di presidenti che a partire da George Washington hanno sempre traslocato alla Casa Bianca con pappagalli, orsi, criceti, pony, gatti e cani (gli ultimi saranno Bo e Sunny, pastori portoghesi di Barack Obama), il neoeletto Donald Trump non abbia ancora chiesto una cuccia per nessun compagno peloso. Una deroga, forse, potrà essere concessa al leone di peluche a misura naturale del figlio Baron. Honi soit qui mal y pense.

(Ha collaborato Valentina Bonelli) Vogue Italia, dicembre 2016, n.796, pag.78

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