Ve lo ricordate Brian Lee O’Malley? Se il nome non vi fa scattare niente, probabilmente è perché non avete mai letto il suo Scott Pilgrim vs The World. E dovreste, dovreste proprio: non credo esista una storia d’amore più divertente, ironica, rocambolesca. E i combattimenti con superpoteri sono all’altezza dell’ultimo Avengers

nel 2010 Edgar Wright ci ha ricavato anche un bel cinecomic – prima che la parola fosse in voga – con Micheal Cera e Mary Elizabeth Winstead (magnifica coprotagonista anche nell’ultima stagione di Fargo). E se non avete visto nemmeno quello, dovrebbero ritirarvi la patente da nerd.

No, scherzo. Non esiste una patente da nerd.

Ma ovviamente non è di Scott Pilgrim che tratteremo oggi, troppo facile. Prima di buttare giù nel 2004, quello stranissimo, inqualificabile, divertentissimo connubio fra racconto di coppia e picchiaduro anni ’80, O’Malley aveva appena pubblicato una graphic novel dal titolo significativo: Lost at Sea. Alla deriva nell’edizione italiana.

Ora, la prima edizione statunitense, della Oni Press, è del 2003. La prima italiana, targata Rizzoli Lizard, risale al 2013. Se ci aggiungete il fatto che Lost at Sea è una specie di diario di pensieri, nel quale l’intreccio, piuttosto disarticolato, assume un’importanza secondaria rispetto ai dialoghi, lanciare l’allarme spoiler sarebbe particolarmente inutile, quasi ridicolo, non vi pare?

Ed è esattamente per questo che lo faccio. Toh:

ALLARME SPOILER

Così, gratis e a secco.

Ora, cos’è Alla deriva? Sostanzialmente, un diario di viaggio, scritto da una ragazza di 18 anni. O meglio non scritto, pensato. “Pensieri sparsi” indirizzati ad un “tu” fantasmatico, mai visibile, eppure sempre presente. Il racconto è dunque interamente costruito su una grande assenza, su un vuoto emotivo. Un tema insomma piuttosto importante e cupo, su cui l’autore costruisce una narrazione delicata e raffinata, in bilico come suo solito tra comicità sottile e delicato lirismo.

Costruzione che qui proverò comunque a mandare in vacca.

Raleigh, la protagonista, sta tornando in Canada dal suo viaggio in California. Dato che ha perso il treno, si sta facendo accompagnare da alcuni coetanei delle sue parti, che per puro caso passavano di lì in auto , e per puro caso l’hanno chiamata, pur conoscendola poco e niente (??). Tutti questi “per puro caso” non sono retorici: è veramente avvenuto tutto casualmente… . È credibile? Non lo è? Come funzionano esattamente le cose in Canada? Ha importanza? Ma soprattutto riescono a tornare a casa?

Ecco, su questo punto ci sono dei dubbi, dato che il gruppetto è formato da altri tre tipi senz’altro molto interessanti, ma assolutamente svampiti e fuori di testa. Per di più la loro conoscenza della geografia statunitense non sembra essere all’altezza del compito. Ma in fondo non lo è mai.

Durante questo girovagare, apprendiamo dai suoi soliloqui che un gatto ha rubato l’anima di Raleigh… Anche qui la cosa non è metaforica: la ragazza pensa sul serio che la sua anima ce l abbia un gatto che si aggira da qualche parte negli Stati Uniti, per qualche motivo. E siccome i pazzi devono essere assecondati, tutto il gruppo finisce per mettersi a cercare il gatto in questione.

Di notte.

In un campo random attorno ad un motel in cui si erano fermati a dormire…

Ha perfettamente senso, no?

Spoiler: non è quello giusto

E Infatti da lì le cose iniziano ad andare meglio per Raleigh, che uscendo leggermente dal proprio mutismo riflessivo comincia a conoscere i compagni di viaggio. Scoprendo così che sono incasinati almeno quanto lei…

Chi sa perché questa cosa non mi sorprende.

Dai racconti mentali della ragazza scopriamo anche che si trovava in California per un misto di motivi, composto in misura assai diseguale da:

  1. Fare visita al padre

  2. Incontrare il suo “amico di penna”, di cui è innamoratissima. E che ovviamente è la grande, incolmabile assenza di cui sopra.

Sebbene l’intera faccenda sembri essere andata piuttosto bene, a questo punto la cosa si fa complicata: c’è di mezzo una lettera mai aperta del tipo, collegata al “peggior trauma della vita di Raleigh” [sic!], che non si capisce quale sia, dato che al momento in cui lo dice non sa ancora cosa ci sia scritto, nella lettera…

Ma forse sono vittima di un bias cognitivo dovuto alla mia formazione illuminista dura a morire. Dopotutto cuore ha delle ragioni che la ragione non può comprendere, come diceva il vecchio Pascal. Così si è capito pure che che marca di cioccolatini mi magnavo da ragazzino (ma poi che diavolo è un bias cognitivo?).

Quindi bando alla razionalità lineare, e via di ormone selvaggio.

Lo so, è un riassuntone delirante, ma vi assicuro che la storia lo è ancora di più, ed proprio in questo labirinto emotivo che consiste il suo fascino. Per non parlare del fatto che se leggete queste righe è perché cercate proprio Delirio, ma non avete trovato il numero della deliziosa sorella pazza di Morfeo.

Lost at sea è l’intima soggettiva di un’esperienza umana comune a molti, se non a tutti: la deriva, la sensazione di essersi persi nel mare immenso della vita, senza punti di riferimento. Che fra il proprio io e gli altri ci sia un orizzonte irraggiungibile, e che la propria anima sia finita chi sa dove, rubata da chi sa cosa: un gatto, un tizio californiano, una ragazza coi capelli di miele. O più semplicemente da Mefistofele, che come insegna Goethe è l’unico vero professionista del settore.

E se dovete trattare della vostra anima immortale, fidatevi: volete un professionista.

Comunque Raleigh alla fine l’anima la ritrova. Non era dentro un gatto – per quanto quel maledetti felini non la contino giusta -, ma nell’auto che la riportava a casa, facendo un giro molto lungo.

Fra i suoi nuovi amici e la condivisione delle loro personalissime paranoie. In un futuro che continua ad andare pur sempre alla deriva, come ogni futuro degno di questo nome.

Insomma, più o meno dove un’anima deve stare.

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