Quattrocento manifestanti circa, non molti di più. A Seul, nella piazza antistante il padiglione Bosingak gruppi di dimostranti sventolano bandiere gialle e rosse, intonando slogan contro i gruppi animalisti. Nella capitale sudcoreana va in scena la protesta dei venditori di carne di cane. La marcia, nelle parole degli organizzatori, è per la difesa del benessere di un milione di allevatori. Chiedono al governo di tutelare i loro affari.

Gli attivisti per i diritti animali sono il loro bersaglio: «egoisti che si credono moralmente superiori», vengono apostrofati, secondo quanto riporta il Korea Times. Siamo nel periodo di picco della vendite e conseguentemente delle proteste. Sono i giorni del Boknal e delle tre giornate tra luglio e agosto di maggiore consumo. Le date precise del Chobuk, del Jungbok e del Malbok cadono secondo il calendario lunare. Ed è in questi giorni che si vendono più bosingtang , le zuppe di cane il cui appeal sta scemando.

In Corea del Sud, scrive il quotidiano Hankyoreh, si torna a parlare di consumo di carne di cane. Il dibattito ha ripreso vigore. E non potrebbe essere altrimenti, anche perché il prossimo anno il Paese ospiterà a Pyeongchang le Olimpiadi invernali.

Come già in occasione del Mondiale di calcio del 2002 non mancano gli appelli per porre fine al commercio e al consumo. Ma la memoria torna all’organizzazione dei Giochi olimpici del 1988. Il Paese da poco tornato alla democrazia si trovò a fare i conti con l’immagine internazionale e il governo decise pertanto si trasferire i ristoranti dal centro città alle aree periferiche.

I tempi cambiano. A differenza di trent’anni fa le resistenze si sono fatte meno forti. Anzi, gli stessi animalisti sudcoreani, sottolinea Hankyoreh, stanno passando dalle semplici campagne di sensibilizzazione, all’azione diretta, denunciato i macelli e i rivenditori. In linea generale, comunque, mangiare carne di cane è un’usanza che sta lentamente scomparendo.
Tuttavia, ogni anno (dato al 2014) nel Paese vengono ancora macellati oltre 2 milioni di esemplari e consumate 100mila tonnellate di carne, in gran parte sotto forma di gaesoju, un tonico per la salute, ottenuto facendo bollire l’animale con erbe, con la convinzione che aiuti a mantenere energie e affrontare con vigore i giorni più caldi dell’anno.

L’intera industria, si legge in uno studio di Claire Czajkowski della Lews & Clarc Law School, ha un valore di circa 2 miliardi di dollari. Mentre quella degli animali domestici genera un giro d’affari di 3 miliardi. Secondo il Korean Journal of Food and Nutrition, il consumo di carne di cane risalirebbe all’epoca dei Tre Regni; si torna quindi indietro fino al 57 a.C. I più tradizionalisti, ricorda Czajkowski, sostengono che storicamente si mangiassero soltanto randagi, quindi senza allevarli allo scopo. Per alcuni gruppi animalisti, in realtà, la carne di cane non sarebbe insita nella cultura coreana. Il consumo risalirebbe soltanto agli anni Cinquanta del secolo scorso per via della povertà nel periodo post-bellico. I venditori in protesta chiedono al governo certezze e di legalizzare una volta per tutte il loro business. Ci si muove infatti in una zona grigia del diritto.

Le leggi sulla macellazione e le norme igieniche contemplano altri animali. Tuttavia non esiste un esplicito divieto. Chiedono inoltre che si faccia distinzione tra gli animali da allevamento e gli animali da compagnia. Ma le loro rivendicazioni mal si conciliano con la crescente contrarietà dei sudcoreani a tale tradizione culinaria. Stando a un sondaggio Gallup del 2015, poco più d un sudcoreano su tre è oggi favorevole. Di contro il 44% della popolazione vede l’usanza in modo negativo. Risultato: i prezzi negli ultimi anni sono crollati della metà. Senza contare che alla Casa Blu scorrazza ora il «first cat» del presidente Moon Jae in, pronto ad adottare anche un cucciolo di cane abbandonato: Tori.

Il capo di Stato è in qualche modo rappresentativo dell’intera nazione. Altro episodio simbolico è l’accordo per la chiusura di Moran, il più grande mercato all’aperto di carne canina della Corea del Sud., dove ogni anno vengono venduti circa 80mila animali. Venditori e amministratori di Seongnam hanno trovato un’intesa per smantellare gabbie e macelli, dove gli animali venivano custoditi per essere scelti dai clienti e poi uccisi li, davanti agli occhi di tutti. L’attività continuerà in negozi e condizioni almeno all’apparenza meno crudeli.

Come conclude Czajkowski, un divieto totale sarà lungi dall’essere imposto. Le leggi sulla tutela degli animali, i regolamenti sugli antibiotici, la regolamentazioni sull’ambiente possono però contribuire a una riduzione del mercato. Occorre che il governo faccia la sua parte. Anche perché le critiche internazionali potrebbero avere una controindicazioni oggi di moda in giro per il mondo, ossia fomentare posizioni nazionaliste.

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