Abbiamo iniziato nel corso della prima puntata a conoscere i dinosauri ed abbiamo scoperto che per alcuni mesi saranno ospiti nella nostra città. Tuttavia ciò che conta è: chi erano questi esseri viventi?
Facciamo un breve viaggio indietro nel tempo fra i punti nevralgici della nostra città.

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1.Tyrannosaurus rex (Ospedale Papa Giovanni XXIII)

Il timore dell’ospedale può esser uno dei più terribili, tuttavia nulla può far più paura della presenza di un dinosauro lungo quasi 12,5 metri di lunghezza per cinque tonnellate di peso. Stiamo parlando del tyrrannosaurus rex, uno dei dinosauri più conosciuti la cui una riproduzione è presente nei pressi dell’entrata dell’ospedale cittadino: vissuto nel Cretaceo Superiore (68 – 66 milioni di anni fa), il tirannosauro è stato considerato uno dei predatori più temibili che hanno solcato il nostro pianeta per via delle sue ampie fauci, vera arma del rettile, il cui morso era in grado di strappare cento chilogrammi di carne, con una forza tre volte quella del leone, dieci volte quella dello squalo e venti volte quella umana. Grazie alla forza del morso Tyrannosaurus poteva affondare i denti in profondità nella carne delle vittime e spezzarne anche le ossa; scuotendo violentemente la testa strappava quindi grossi bocconi che ingoiava senza masticare. Anche se il tirannosauro andava sicuramente a caccia per procurarsi il cibo, se si imbatteva in animali già morti li mangiava volentieri risparmiandosi la fatica di combattere.
A differenza degli altri dinosauri carnivori gli occhi di Tyrannosaurus non erano posti sui lati della testa, ma di fronte; questo fatto consentiva all’animale di vedere anche davanti a sé, con ambedue gli occhi contemporaneamente. Per questo motivo Tyrannosaurus si rendeva conto molto bene della tridimensionalità e poteva calcolare con precisione le distanze grazie anche ad una vista particolarmente acuta, paragonabile a quella di un’aquila. La mole del Tyrannosaurus potrebbe far pensare ad un essere vivente lento, nonostante ciò all’essere vivebte la conformazione delle gambe consentiva di raggiungere una velocità di circa 25 km orari, cioè comparabile a quella di un atleta ben allenato.
Una buona struttura fisica, tuttavia il celebre predatore soffriva di qualche problemino fisico: a dimostrarlo sono stati i reperti ritrovati dai paleontologi si possano osservare come parti dello scheletro fossero in alcuni casi deformate o corrose a causa di infezioni o altri tipi di disturbi che potevano provocare dolori alle giunture e rendere più difficili i movimenti. Anche il tirannosauro poteva soffrire di “gotta”, una malattia che colpisce pure l’uomo, una specie di intossicazione dovuta a un cattivo funzionamento dell’organismo imputabile a una dieta troppo ricca di carne.

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2. Indricotherium transouralicum (Piazzale Guglielmo Marconi – Stazione Ferroviaria)

Non solo dinosauri, ma anche mammiferi nel corso del nostro tour all’interno della città ed ad accogliere i turisti all’ingresso della città è l’Indricotherium transouralicum, mastodontico essere vivente vissuto a cavallo dell’Eocene e dell’Oligocene (37,2 – 22 milioni di anni fa). Con i suoi 8 metri di lunghezza ed i 5,5 metri di altezza, l’Indricotherium transouralicum viene considerato il più grande mammifero di terraferma, più alto delle attuali giraffe e pesante al pari di tre elefanti africani. A differenza dei suoi lontani parenti attuali, i rinoceronti, Indricotherium aveva zampe relativamente lunghe e slanciate ed era privo di corni. Le ossa del cranio mancano infatti della superficie rugosa sulla quale, nei rinoceronti attuali, si saldano i corni di cheratina, mentre alcuni crani possedevano la testa bombata, strutturalmente più robusta: in questi casi forse ci trovava di fronte ad esemplari maschi, che si guadagnavano il diritto alla riproduzione spintonandosi con la testa o sfidandosi a colpi di collo (“necking”) come fanno le giraffe.
L’estremità del muso di Indricotherium era conformata per strappare le foglie: un labbro superiore prensile, analogo a quello del rinoceronte nero, portava le foglie in prossimità della bocca, dove gli incisivi potevano reciderle, dei quali i superiori, diretti verso il basso e simili a piccole zanne, erano maggiormente sviluppati. Il nome Indricotherium, che significa “bestia-Indrik”, deriva da quello di un essere della mitologia russa medievale descritto come “il padre di tutte le bestie selvatiche”, al cospetto del quale tutti gli altri animali si dovevano inginocchiare.

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3. Pachyrhinosaurus lakustai (Largo Gianandrea Gavazzeni – Porta Nuova)

Osservando il Pachyrhinosaurus lakustai numerosi sono gli elementi che rendono curioso questo rettile vissuto nel Cretaceo Superiore (73,5 – 72,5 milioni di anni fa, come gran parte delle specie appartenenti al gruppo dei Ceratopsia: l’enorme testa dotata di un becco simile a quello dei pappagalli, di un collare osseo che si proiettava all’indietro verso il collo e di un numero variabile di corna e protuberanze sul capo. Proprio una di queste protuberanze, quella rugosa che adornava le ossa nasali al posto del corno, ha caratterizzato il nome del rettile, il cui significato è “sauro dal naso spesso”: studiando la microstruttura dell’osso e facendo confronti con gli animali attuali, i paleontologi hanno riscontrato forti somiglianze con la fronte dei maschi adulti del bue muschiato attuale, Ovibos moschatos. Essa non era semplicemente ricoperta di pelle, ma rivestita da uno spesso cuscinetto di epidermide corneificata che ne aumenta di molto le dimensioni e aiuta ad assorbire gli impatti nei frequenti scontri tra rivali. Se questi scontri avvenissero anche tra i Pachyrhinosaurus non si sa: di certo si può presumere solo che, almeno in certi momenti dell’anno, questo animale vivesse in gruppo, come testimoniato dal ritrovamento di grandi accumuli di ossa con resti di individui di età differenti.
Il collare osseo era adornato da diverse corna, tuttavia poiché i crani di Pachyrhinosaurus canadensis rinvenuti ad oggi sono piuttosto incompleti nella regione del collare, la ricostruzione della forma e dell’orientamento delle corna è stata basata su Pachyrhinosaurus lakustai, una specie leggermente più antica e di taglia più piccola: tra gli spuntoni che adornavano l’asse mediano del collare essa possedeva una lunga barra appuntita, perpendicolare, che fa pensare ad animali mitologici come l’unicorno, mentre altre protuberanze, simili a quella nasale, ma più piccole, erano disposte al di sopra delle orbite di Pachyrhinosaurus.
I Ceratopsia come Pachyrhinosaurus brucavano al suolo nelle vaste praterie di felci dell’epoca e consumavano anche le abbondanti Angiosperme (piante con fiore), tranciando le piante con il becco possente e tagliuzzandole in minuscoli brandelli con batterie di denti affilati. L’efficienza dei denti era sempre massima, poiché non appena un dente veniva usurato, esso cadeva e ve ne era già sotto uno nuovo pronto a sostituirlo.

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4. Diplodocus longus (Piazza Cittadella – Museo Civico di Scienze Naturali “Enrico Caffi” )

Ultima tappa del nostro tour nella Bergamo di altri tempi è l’entrata del Museo Civico di Scienze Naturali “Enrico Caffi” dove fa buona guardia l’altissimo Diplodocus longus. Il Diplodocus era un sauropode di costituzione leggera, con un collo lungo e molto snello anche alla base, e con una interminabile coda che all’estremità si assottigliava come una frusta: si è calcolato che agitando la coda da destra a sinistra con una velocità alla base di 1,5-2,5 metri al secondo, essa avrebbe potuto acquisire all’estremità una velocità superiore a quella del suono, generando schiocchi duemila volte più intensi di quelli prodotti da una frusta. Questi schiocchi potevano essere uditi a grande distanza dai propri simili o intimorire e disorientare gli assalitori.
La coda a frusta poteva servire anche per infliggere terribili sferzate ai nemici? Probabilmente no. Gli ultimi due metri di coda pesavano solo un paio di chili, dunque per arrecare danno a un avversario l’estremità della coda avrebbe dovuto oscillare a una velocità tale che l’impatto la avrebbe danneggiata seriamente. Un uso ripetuto della coda come arma dovrebbe aver lasciato inoltre sulle ossa fossili segni di trauma, che non sono mai stati osservati.
Il Diplodocus poteva occasionalmente sollevarsi sulle zampe posteriori, scaricando parte del peso sulla coda e adottando una postura tripode: è probabile che i sauropodi assumessero questa postura solo durante i combattimenti inter- o intraspecifici, non per cibarsi delle foglie sui rami alti degli alberi. Messo alle strette, il Diplodocus poteva sollevarsi per cercare di schiacciare un nemico o di ferirlo scalciando con gli arti anteriori dotati di un grande unghione affilato sul pollice. La mole rendeva inattaccabili gli individui più grandi: gli adulti di Diplodocus potevano infatti raggiungere 35 metri di lunghezza e pesare oltre 20 tonnellate.
In un mondo popolato da molti altri sauropodi, la lunghezza del collo non era un vantaggio nella competizione per il cibo, perché solo gli esemplari adulti delle specie più grandi avrebbero effettivamente potuto brucare a quote in cui non vi erano competitori. Un collo lungo era molto più vulnerabile agli attacchi dei predatori, e doveva essere una struttura dal complesso funzionamento meccanico e fisiologico. Infine, il collo era proporzionalmente più lungo negli adulti. Forse agli occhi di un Diplodocus maturo la lunghezza del collo di un potenziale partner doveva apparire come una prova che esso era stato capace di raggiungere l’età adulta nonostante i pericoli, risultando dunque forte e attraente. Il muso allungato era equipaggiato nella parte anteriore da denti simili a pioli, con cui l’animale strappava le foglie dai rami, ingoiandole intere e poi macinandole all’interno del robusto stomaco in cui rotolavano i sassi che l’animale ingeriva (gastroliti).

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