Se il danno è provocato da un animale domestico, è il proprietario a dover provare il caso fortuito; per la fauna selvatica, la prova spetta al danneggiato.

Sono frequenti nella realtà quotidiana casi in cui animali domestici o selvatici provocano pregiudizi di vario genere. In tali situazioni, occorre chiedersi in che misura e maniera debba considerarsi responsabile il proprietario degli animali stessi, sul quale necessariamente ricadono le conseguenze risarcitorie del danno arrecato.

Ebbene, mentre nel caso degli animali domestici il proprietario potrà evitare il risarcimento solo se prova il “caso fortuito”, per la fauna selvatica è il danneggiato a dover dimostrare che l’ente pubblico tenuto alla vigilanza non si sia adoperato con diligenza nel prevenire il prodursi del nocumento.

Con riguardo alla prima situazione, riguardante i danni causati da animali addomesticati, la legge è ferma nell’attribuirne la responsabilità al proprietario [1]. Quest’ultimo, infatti, è tenuto ad esercitare tutti i poteri di controllo e vigilanza necessari ad evitare che l’animale provochi pregiudizi a terzi. Egli, pertanto, sarà obbligato non solo a risarcire il danno patrimoniale prodotto, ma potrà subire le conseguenze del fatto anche sul piano penale. Ad esempio, il morso di un cane al guinzaglio che provochi ferite ad un passante costringe il proprietario a rispondere del reato di lesioni colpose [2].

Per il titolare dell’animale esiste un’unica scappatoia. Quella di dimostrare, nel giudizio instaurato, che il danno è stato dovuto al caso fortuito. Con tale espressione si intende far riferimento ad un evento assolutamente imprevedibile, inevitabile ed eccezionale (si pensi all’incidente causato da un animale domestico scappato o smarrito).

Quindi, per poter godere del ristoro patrimoniale, al danneggiato basterà affermare l’esistenza del pregiudizio causato dall’animale. Il risarcimento andrà chiesto entro cinque anni dal verificarsi del danno [3].

Più gravosa sarà la posizione del proprietario, costretto a fornire la prova (il più delle volte ardua) del caso fortuito.

La responsabilità del titolare dell’animale domestico, dunque, non si fonda su un comportamento di tale soggetto, ma sulla relazione tra quest’ultimo e la bestia. Nel nostro ordinamento, infatti, vige un principio generale per cui chi beneficia dei vantaggi di una situazione, è tenuto anche a sopportare le conseguenze negative da essa derivanti.

Ne deriva che chiunque detenga un animale (ad esempio, per causa di lavoro) trarrà utilità economiche derivanti dal suo utilizzo, ma dovrà soffrine anche i rischi. Si pensi al lavoratore dipendente che quotidianamente svolga le proprie mansioni con l’animale di proprietà del datore. In caso di danno causato dalla bestia, il risarcimento sarà dovuto dal proprietario (e non dal lavoratore), in quanto è quest’ultimo a godere dei benefici patrimoniali scaturenti dall’uso dell’animale stesso. Allo stesso modo, se il dipendente adopera l’animale per fini autonomi, risponderà in prima persona del danno causato in tale occasione.

Più difficile risulta, allo stato attuale, ottenere il risarcimento del danno causato dalla fauna selvatica. Ad esempio, non sono rari incidenti stradali causati dall’improvviso attraversamento della carreggiata da parte di animali. In questi ed analoghi casi, è possibile chiedere il risarcimento del danno, ma ottenerlo sarà più difficile rispetto al caso degli animali domestici.

Secondo la legge, la fauna selvatica costituisce patrimonio indisponibile dello Stato [4]. In particolare, responsabile per i danni causati dagli animali selvatici sarà l’Amministrazione di volta in volta competente: Regione o Città metropolitana per le strade di loro proprietà, Comune per i cani randagi, ente gestore del parco naturale in cui gli animali vivono e così via. Salvo che una legge regionale abbia affidato la prevenzione del randagismo all’ASL: in tal caso è quest’ultima a rispondere dei danni.

La Cassazione afferma che, in tali casi, per ottenere il ristoro patrimoniale il cittadino deve dimostrare l’esistenza di una condotta colposa da parte del soggetto pubblico competente nel caso concreto [5]. In altri termini, occorre provare che l’amministrazione non ha tenuto un comportamento diligente nella prevenzione dei rischi per i terzi e non ha adoperato tutte le misure idonee ad evitare o limitare i sinistri causati dalla fauna.

In questo caso quindi, a differenza di quanto si è detto per gli animali domestici, la legge fonda la responsabilità in un preciso contegno (spesso omissivo) dell’ente pubblico e non nel mero rapporto di proprietà con l’animale.

Anche qui, il risarcimento potrà essere richiesto entro cinque anni dal verificarsi del danno.

In conclusione, per ottenere il ristoro patrimoniale dei danni causati da animali domestici è sufficiente affermare l’esistenza del pregiudizio e del rapporto di causa-effetto con la condotta dell’animale stesso. Invece, riguardo ai danni prodotti dalla fauna selvatica, occorrerà altresì dimostrare che l’ente pubblico di volta in volta tenuto alla vigilanza delle bestie non si è adoperato in modo diligente al fine di evitare questo tipo di incidenti.

In entrambi i casi, il risarcimento va richiesto entro cinque anni dalla realizzazione (o dalla scoperta) del pregiudizio.

Avv. EMANUELE CARBONARA[email protected]

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