Non è infrequente che un cane finisca al canile perché ha morso e ferito gravemente il bimbo piccolo. Il proprietario non si dà pace e lo descrive come un cane buono, giocherellone. Ma non lo vuole più riportare a casa. I canili italiani sono pieni di cani di razza pitt bull e dogo argentino, acquistati talvolta con po’ di imprudenza ma anche da chi è convinto di poterli educare e gestire e che, invece, rischiano per una distrazione tutta umana di finire la loro vita da reclusi.

La decisione di avere un cane come amico di casa va ben ponderata esattamente come la scelta di quale cane. Daniele Mazzini, istruttore cinofilo della Polizia locale di Milano, che forma cani antidroga, e collabora da tempo con il Corriere della Sera, invita a «distaccarsi dalle emozioni che una razza di cane vista in un film o in un negozio per animali ci ha fatto scaturire» e piuttosto di «rivolgerci ad un professionista che potrà analizzare la nostra giornata, le nostre aspettative, la composizione del nucleo famigliare», in due parole l’ambiente in cui il cane dovrà inserirsi, e «poi accettare di buon grado il suo consiglio».

Non esiste un cane cattivo né un cane buono, dice Mazzini, ma «un cane prodotto per un determinato scopo». Prendiamo, per esempio, il caso del dogo argentino, «che è un insieme di razze, prevalentemente molossoidi e nasce come cane combattivo per la caccia ai grossi animali e per allontanare i puma dalle mandrie», prosegue l’esperto. «Ha una territorialità e una reattività così importanti poco possono sposarsi in un ambiente familiare e in un contesto urbano». Il primo suggerimento, dunque, è a non scartare a priori i cani di piccola taglia. «Il cane in ambiente urbano non viene preso per andare a caccia ma come elemento affettivo, come componente della famiglia. E ci darà la soddisfazione di accudirlo e a educarlo, che sono poi i bisogni di ognuno di noi».

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