di Marco Celati – mercoledì 13 gennaio 2016 ore 17:55

IL RAMARRO SMERALDINO

“Marco, Marco! Vieni a casa, è ora di cena!”

La mamma mi chiamava dalla finestra di casa che dava sul campo di gioco. Su quel campo passavamo le nostre giornate. Eravamo ragazzacci di periferia e il tempo era lungo per noi. Il quartiere della Bellaria, dove le nostre famiglie negli anni ’60 erano venute ad abitare e vivere, era situato all’immediato confine della città che in quegli anni cresceva come il progresso che aveva portato nelle nostre case la televisione, il frigorifero e la lavatrice. Il quartiere era posizionato ad ovest, verso la piana che porta alla costa e di giorno la brezza, che si levava dal mare lontano, portava un’aria che, specie d’estate, rinfrescava. Per questo si chiamava Bellaria. Oggi da ovest a volte arrivano gli odori della discarica e degli impianti della raccolta dei rifiuti. “Altro comfort fa per noi ora, altro sconforto”. Quando i muratori lasciavano i cantieri, giocavamo a rimpiattino nei palazzi in costruzione e ci arrampicavamo sulle impalcature spenzolandoci dai tubi “Innocenti” come Tarzan nella Jungla. Ci buttavamo da piani sempre più alti sui mucchi di rena e di ghiaia, più di uno si ruppe una gamba. Erano prove di ardimento nella dimensione epica della vita. Ma il campo era il campo. Ci avevamo messo due porte rudimentali e lì ogni pomeriggio ci trovavamo: due capitani facevano la conta, sceglievano a turno i giocatori della squadra e poi iniziava la partita. Era un campo che il contadino non coltivava, oltre la vigna, tra le case: a dorso di mulo, se imparavi a giocare e portare avanti la palla lì, potevi giocare bene nei campi di calcio veri. Quando giocavo imprecavo e litigavo, dicevo parolacce non risparmiavo offese, mi picchiavo, ne davo e ne prendevo, più spesso ne prendevo.

“É rigore ti dico! Lo batto io.”

“Fori!!! Bene, San Giovanni ‘un vole ‘nganni!”

“Ma vaffanculo te e la tu’ sorella.”

“La tua!”

Quella sera i miei mi stavano guardando dalla finestra, non me n’ero accorto e avevo dato il meglio di me, sbagliando anche il rigore. La mamma restò sorpresa della mia sguaiataggine e mi rimproverò non senza un lieve sorriso. Il babbo scosse la testa e disse “non era rigore”. Andai a lavarmi le mani e le ginocchia sbucciate e sanguinanti e poi a cena. Il babbo cantava alla mamma “Io che ho avuto solo te”. C’è gente che ama mille cose e si perde per le strade del mondo. Io che amo solo te, io mi fermerò e ti regalerò quel che resta della mia gioventù. Io che ho avuto solo te. Il mondo ci sembrava tutto intero. La noia di certi pomeriggi era interminabile, assoluta, non crescevamo mai, ma il tempo era nostro, stava dalla nostra parte.

Alla fine anche il nostro campo fu venduto, ci aprirono un cantiere. Ci giocammo un’ultima volta, poi lo cospargemmo di fiori e gli dicemmo addio per sempre. La nostra vita sarebbe cambiata. Oggi ci sono sopra due case. In una di queste ho pure abitato.

Un giorno d’estate una frenesia prese il gruppo: con carabine, fionde, sassi e bastoni, dichiarammo aperta la caccia a lucertole, ramarri e tarantole. Fu una carneficina, riempimmo un bidone di cadaveri delle innocenti bestiole. La crudeltà dei ragazzi è pari alla loro innocenza.

La mia prova del coraggio era prendere lucertole e tarantole a mani nude. Bisognava afferrarle tra la testa e le zampe anteriori. Erano fredde, specie le tarantole che emettono un verso stridulo, una lucertola più grossa mi morse, un taglietto, il dito sanguinò.

Un giorno, che ero già più grande, con amici sconfinammo nella Curigliana, una campagna inesplorata e selvaggia. C’erano ancora le case matte a forma di igloo che ricordavano il tempo di guerra. Dentro escrementi e schifezze varie. Vedemmo un grosso biacco frustature muoversi a spire sinuose nel pantano e poi, tra le piante del granturco, mi apparve, bello e primitivo, il ramarro smeraldino. E capii che quelli che chiamavamo ramarri erano in realtà rogioli, lucertole verde scuro, solo un po’ più grandi. Stava sulle zampe anteriori con la testa sollevata, imponente e maestoso, verde chiarissimo. Non arretrava mi osservava curioso e sfidante. Sembrava dirmi piccolo uomo, selvaggio e malvagio, prenditela con me, se ti riesce, non con i più piccoli. Era l’erede dei dinosauri che avevano abitato la Terra molto prima di noi. Era una divinità rettile. Rimasi paralizzato, in ammirazione. Lo smeraldino regalmente si ritirò nella sua foresta di mais. Quando chiamai gli altri era già sparito. Era venuto per me: il coraggioso cacciatore di lucertole a mani nude.

Da allora non ho più preso lucertole con le mani forse per quell’apparizione o forse perché stavo diventando più grande e da grandi si perdono coraggio e incoscienza. Il sole stava calando sulla Curigliana, riprendemmo la strada di casa con gli amici che mi sfottevano, increduli.

Alcuni di quei ragazzi non sono più, non hanno avuto il privilegio e la noia d’invecchiare. Di tanti ho perso le tracce né mai le ho cercate. Rivederci a volte ci dà un misto di tenerezza e fastidio. È così che si cresce e si diventa adulti: lasciandoci alle spalle chi siamo stati in altre età.

Finché non si realizza che ognuno si perde in sé stesso: non sono stato quello che avrei pensato di essere, sono stato quello che mi è capitato di essere. Ho solo cercato di farlo meglio che ho potuto, se questo può valere qualcosa. “Io che nel tempo vengo da lontano quando usava il buon costume, la fratellanza”. Ma “chi pensava all’enorme trasformazione del mondo” ? E oggi che sono avanti negli anni e un giorno di questi anch’io cesserò di essere, mi tornano a mente questi ricordi d’infanzia che credevo di aver sepolto nel corso della vita. Forse perché si avanza a spirale, come una molla, in cerchi che crescono e, crescendo, ritornano verso il punto di partenza. Che è un modo un po’ più lambiccato e “scientifico” per dire che da vecchi si torna bambini.

Il tempo non è relativo solo per Einstein, ma pure per ogni “laudator temporis acti”. Oggi la vita rimasta e troppe cose “mi dimostrano in abbondanza che questo non è più il mio mondo”. Non è più un mondo per me.

Marco Celati

Treggiaia, 16 Ottobre 2015

I riferimenti. Che il comfort porta anche sconforto lo sostiene il verso con cui l’immancabile Eugenio Montale conclude la bellissima poesia “L’Arno a Rovezzano”. La frase “laudator temporis acti” si deve, com’è noto, ad Orazio e spiega anche tante cose dell’anziano che sono diventato. Le frasi virgolettate “Io che nel tempo vengo da lontano…”, “…chi pensava all’enorme trasformazione del mondo” e “…questo non è più il mio mondo” sono del signor Tiziano Tamburini, 99 anni, empolese, reduce di guerra che ha scritto una bella e commovente lettera dal titolo “Perché no alla indolore eutanasia?” uscita sul Tirreno del 14 Ottobre 2015 che, nella sua fondamentale richiesta, sottoscrivo.

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IL GECO

Un geco mi è entrato in casa, non so come abbia fatto, evidentemente ha trovato un pertugio tra le travi del solaio e ora si aggira per le stanze. Appare, scompare, è carsico, emerge da qualche anfratto come i ricordi dalla memoria. D’estate le tarantole vengono sul muro della casa, vicino alla luce: le guardo dal terrazzo. Stanno immobili, mimetizzate nel cono d’ombra, appiattite alla parete, sembra stiano dormendo poi, d’improvviso, scattano velocissime e ghermiscono l’insetto incauto che si è troppo avvicinato alla fonte luminosa. Pare che un geco possa mangiare fino a duemila zanzare in una notte: è una soddisfazione saperlo dopo essere stati pinzati senza pietà dalla zanzara tigre. La capacità del geco di aderire a qualsiasi superficie è studiata dalla scienza. Sembra dipenda dalla forza, misteriosa per me, di van der Waals, una roba di chimica o di elettromagnetica per cui si attiva un’interazione molecolare tra i milioni di peli che ricoprono le zampe e la superficie. Se si riuscissero a costruire dei guanti o una tuta fatti in quel modo potremmo anche noi camminare sulle pareti verticali. L’uomo geco incontra l’uomo ragno sul grattacielo di Forderponte e insieme sorvegliano la città. Interessati alla ricerca sugli sviluppi di tali capacità adesive anche gli anziani dell’ospizio: funzionasse anche per le dentiere…

Secondo Ovidio l’universo nasce dal movimento, dalle continue trasformazioni che la natura subisce per effetto del combinarsi degli atomi del modo e per le azioni galanti o perverse nei confronti degli uomini perpetrate dagli dei capricciosi. Tanto per fare un esempio a caso, nelle Metamorfosi, Cerere, la dea delle messi, della fertilità e della terra, cerca senza posa la figlia Proserpina, rapita da Plutone, re dell’Ade, per trarla in sposa. Sfinita dalla fatica della ricerca e assetata chiede da bere ad una vecchia che le porge una bevanda dolce di acqua con disciolto orzo tostato: un’orzata insomma. La dea beve avidamente e il figlio dell’anziana signora la irride, chiamandola ingorda. Allora la dea, irata, getta addosso al ragazzo la bevanda con l’orzo inzuppato, i cui schizzi gli macchiano indelebilmente la pelle e, tanto per correzione, lo trasforma per sempre in un geco, che i latini non a caso chiamavano “stellio” perché costellato di macchie. Così impara. Peggio della maga Circe con il malcapitato Ulisse, che almeno fu una trasformazione reversibile! Mai irridere gli dei, specialmente una dea un tantino permalosa, assetata e incazzata di suo perché non trova la figliola. Bontà divina, c’è anche da capirla! Dopotutto sempre meglio un geco dello scarafaggio in cui nella Metamorfosi di Kafka fu trasformato il povero Gregor Samsa e nemmeno ad effetto di una dea! Comunque così, secondo la mitologia greco-latina, nacque il geco o tarantola o labrena.

La labrena è una specie di geco di cui il protagonista di un racconto di Tommaso Landolfi ha particolare orrore. Spesso l’animale riesce ad entrare in casa ed in una di queste occasioni, cercando di smuoverlo dal soffitto con una lunga canna, gli cade proprio in faccia: dall’orrore del contatto, il protagonista muore. O almeno così appare ai familiari, perché in realtà lui, pur non dando alcun segno di vita, può ancora sentire. Sente che la moglie lo tradisce con il cugino durante la veglia funebre e quando sta per essere interrato, riesce con grande sforzo a emettere dei suoni che vengono sentiti: la bara viene aperta e viene portato all’ospedale. Di seguito il racconto si snoda in ancora più infauste vicissitudini che dimostrano inequivocabilmente che se si muore è meglio farlo sul serio e una volta per tutte. I migliori addii sono sempre quelli più brevi. Il racconto si conclude infatti col protagonista rinchiuso in una cella psichiatrica sulle cui pareti imbottite le labrene passeggiano.

Un geco, come tutte le estati, è tornato sul terrazzo del signor Palomar di Italo Calvino. Il signor Palomar e la sua signora stanno lì a contemplarlo, mentre scaglia la lingua, cattura e divora insetti e smarrite farfalline notturne: una strage. Preferiscono quell’immagine alla televisione che mostra altri visibili massacri in giro per il mondo, mentre “il geco rappresenta la concentrazione immobile e l’aspetto nascosto, il rovescio di ciò che si mostra alla vista”. Il geco da fermo compie limitate, ma efficienti operazioni, riduce il suo fare al minimo. E il signor Palomar si chiede se questa è la sua lezione: ”l’opposto della morale che in gioventù aveva voluto far sua: cercare sempre di fare qualcosa un po’ al di là dei propri mezzi”. A pensarci bene, il signor Palomar e la sua signora avrebbero anche potuto spegnere la televisione e trovare qualcosa di meglio da fare nelle calde notti d’estate che stare a contemplare un geco. Ma la letteratura è spesso contraria alla vita e per questo spesso si sofferma a contemplarne il rovescio e da là ci invia avvisi e non inutili indicazioni.

Insomma il geco, la tarantola o, come si dice da noi, la “terrantola”, nel suo piccolo è portatrice di memorie d’infanzia, di un mito e di una letteratura. Perché racconto tutto questo? Perché anche una “non storia” come questa ha bisogno di essere raccontata e perché mi va di farlo. Ma anche perché voglio esorcizzare il fastidio che mi dà sapere di avere in casa il piccolo intruso, l’alieno sotto forma di bestia, erede secondo Darwin di rettili spaventosi.

Ho provato a catturarlo, non più a mani nude come facevo da ragazzo, e ho chiesto un consiglio ad un amico, Antonio, costruttore di paesi, di case e di figli, il quale ha brevettato uno strumento incruento per catturare e liberare successivamente l’animaletto e mi ha dato le seguenti istruzioni.

1. Prendere una bottiglia in plastica, tipo Ferrarelle o comunque con pareti lisce;

2. tagliarla a metà e prendere la parte conica: il taglio deve essere il più possibile regolare e ortogonale alle pareti della bottiglia;

3. inserire il collo della bottiglia in un manico di scopa, fissandolo con dello scotch: i diametri dovrebbero grossomodo corrispondere;

4. attendere che il geco si posizioni sul soffitto;

5. andare sotto al geco e avvicinare lo strumento piano, piano fino ad imprigionarlo nell’imbuto;

6. muovere l’imbuto in modo da far cadere il geco nell’incavo: le pareti lisce e di plastica impediscono al geco di uscire;

7. tenendo lo strumento in posizione verticale, uscire di casa e rilasciare l’animale.

Variante: l’operazione può compiersi anche quando il geco è su una parete. Nel caso occorre schiacciare l’imbuto contro la parete e con un colpo secco, dal basso verso l’alto, far cadere il rettile nella bottiglia stessa. Attenzione: il rischio è procurare delle ferite agli arti dell’animaletto.

E macchiare il muro, ho pensato cinicamente io, rammentando i miei trascorsi giovanili di crudele cacciatore di rettili e ricordandomi che sto di casa in affitto.

Ho provato a seguire le istruzioni per catturare la bestia, sperando di non fare la fine del protagonista del racconto di Landolfi e preferendo, tutto sommato e contrariamente al signor Palomar, fare altro o guardare la televisione, almeno qualche film e le partite, invece di starmene a osservare il geco. Non bevo Ferrarelle, ma acqua non gassata. Ho pensato comunque che andasse bene un’acqua qualsiasi. Nutrivo invece forti dubbi che il geco non sapesse arrampicarsi anche su una bottiglia di polietilene, sia pur liscia, nel senso della plastica, non dell’acqua: si è detto che l’animale attiva la forza di van der Waals e acquisisce superpoteri deambulatori… Però ho costruito l’attrezzo e ho atteso. La tarantola si è presentata immobilissima sul soffitto e al mio tiro velocissima è scappata. Lo fanno apposta. Insomma l’ho mancata. Si è rintanata nei pertugi che inutilmente avevo provato a sigillare con del gesso. Riaffiorerà chissà dove, chissà quando: forse emergerà dalle travi di legno, forse dalle sconnessure della scala di pietra serena della vecchia casa colonica che mi ospita e mi accoglie la sera al ritorno dal lavoro e dalla vita. Con quella tarantola ci devo convivere: studierò altri miti, altra letteratura, me ne farò una ragione. Intanto chiudo le stanze dietro di me, sperando di isolarla: soprattutto la camera da letto perché quando si dorme si è più indifesi. E il sonno porta già sogni inquieti. Dicono che avere una tarantola in casa sia una fortuna, perché caccia gli insetti e perché porta fortuna di suo: ho infatti appese al muro lucertole e tarantole comprate in Camargue, ma quelle sono finte e rassicuranti. Sono stato, nel perdurare dell’esistenza, un uomo moderatamente generoso: mi auguro allora che un po’ di fortuna il mio geco, attraverso i suoi reconditi anfratti, la vada a portare anche ai vicini ai quali, da buon vicino, auguro ogni bene, felicità e prosperità. Che la dea Cerere li benedica, e un po’ tocchi anche a loro. Sempre che non la irridano.

Marco Celati

Treggiaia, 16 Ottobre 2015

I riferimenti. Ovidio, Tommaso Landolfi, Italo Calvino e Franz Kafka sono citati nel racconto. Anche la sola citazione è un atto di presunzione da parte mia. Le forze di van der Waals esistono davvero e sono chiamate così in onore dello studioso Johannes Diderik van der Waals che per primo ne formulò la legge nel 1873.

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LA FINE DEL GECO

Ho ucciso il geco. Da tempo mi era entrato in casa e si esibiva in fugaci apparizioni: un esemplare adulto, di non piccole dimensioni. Ho provato a catturalo per rilasciarlo fuori con uno strumento costituito da un manico di scopa in cima a cui ho collegato una bottiglia di plastica tagliata a metà. Ma niente da fare, mi era sempre sfuggito. La scorsa notte sono rincasato tardi, dopo un incontro di lavoro e la tarantola è comparsa da dietro le tende. In fuga, ha preso a percorrere trasversalmente le pareti. Di scatto, risalendo le scale, sono riuscito a chiudere la porta di camera: un giorno me n’ero trovata una più piccola sul letto! La convivenza, a cui mi ero adattato, mi è parsa impossibile. In un impeto fobico ho impugnato uno spazzolone e, menando fendenti qua e là, ho fatto fuori una delle due palle di vetro

che ornano ai lati il bastone della tenda, rovinato un quadro, rovesciato un vaso, fatto un gran casino per la gioia dei vicini, sicuramente dormienti, ma alla fine ho colpito la povera bestia.

Chissà se presagiscono la fine, se ne hanno consapevolezza o l’avvertono come un’abituale insidia della natura ostile oppure di una bestia più grande. Può darsi che alla fine mettano in conto la loro sopraffazione perché con la coda semi spezzata l’animale si è fermato dietro un labile riparo, una tenda e non è più risalito lungo il muro come avrebbe potuto, quasi in segno di resa. Sicuramente proveranno paura. Ho dato un colpo preciso e il geco è caduto al suolo, riverso, quasi morto. È rimasto così, rovesciato, come ad attendere il colpo di grazia. Che è arrivato e l’esistenza della bestiola si è conclusa.

Ho raccolto il corpo e la coda e li ho buttati dal terrazzo nell’erba. La tarantola morta è tornata alla natura: come noi dopo morti, sarà pasto per vermi.

Ho avvertito la boria del cacciatore e ho provato sollievo per essermene liberato. Ma poi è sopraggiunto il dispiacere, come un senso di rimorso, di schifo del sangue e pietà per il dolore inferto e la morte. Ogni bestia dovrebbe stare nel suo, uomo compreso.

Non riesco nemmeno a immaginare quale deve essere il senso di colpa di coloro che le guerre o gli eventi cruenti costringono ad uccidere altri esseri umani. Eutanasia a parte, togliere la vita è delitto, un atto insensato di feroce crudeltà.

Marco Celati

Treggiaia, 31 Ottobre 2015

Con questo breve racconto, preceduto da “Il ramarro smeraldino” e “Il geco”, si conclude, male, una trilogia che potremmo chiamare “Uomini & Rettili”. Vi sono contenuti miti classici e paure ancestrali. O più semplicemente i miei ricordi e le mie paure. 

Marco Celati

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