A sollevare il polverone è stato Tommaso Zorzi, rampollo della Milano bene e noto per la partecipazione al programma televisivo “Riccanza”.

Il ragazzo si è recato nel nuovissimo store di Starbucks appena aperto in Piazza Cordusio con il suo bassotto e gli è stato vietato l’ingresso. Dopo l’accaduto ha deciso di esprimere il suo dissenso online, usando i propri profili social.

Da quel momento sulla pagina ufficiale di Starbucks Italia si è scatenata una tempesta di insulti e proteste contro una scelta considerata non “animal friendly”.

Tanto da costringere l’azienda a chiarire la ratio dell’esclusione dei cani.

«La “Roastery”», spiegano da Starbucks, «è un’attività complessa che include la produzione di cibo (e nello specifico la tostatura del caffè). La regolamentazione attuale (Regolamentazione dell’Unione Europea n° 852/2004 del 29/04/2004 e la normativa Locale sull’igiene del 09/05/1994) impone agli operatori che producono cibo di impedire l’accesso degli animali di qualsiasi specie (fatto salvo per i cani guida per non vedenti) in tutti i locali dove il cibo viene preparato, maneggiato e immagazzinato. A causa della configurazione del “Roastery”, con un singolo open space dove tutta la linea produttiva per la tostatura del caffè è a vista, l’intero locale è soggetto a questa regolamentazione, che ha come scopo finale quello di prevenire la contaminazione del cibo. La sola eccezione riguarda gli animali che accompagnano persone con disabilità».

Dunque caso chiuso? No, perché una domanda viene spontanea: ma perché un cane dovrebbe andare in caffetteria?

«Gli animali vanno rispettati per ciò che sono», sottolinea David Satanassi, veterinario, bioeticista e omeopata, «l’animalismo, specie quello di oggi, è più che altro professato da persone che vivono in città perché chi vive in campagna ha un rapporto diretto con la natura, non una proiezione. Il rapporto diretto con la natura ricrea un equilibrio che è già stato sperimentato nelle migliaia di anni di vita rurale. Allora l’animalismo si trasforma in ecologismo quando l’uomo non fa l’ecologista domenicale: l’animalista pretende una natura incontaminata però poi la teme e la rifugge perché preferisce continuare a vivere in condizioni di “collettivismo vegetativo” ovvero quello metropolitano. Quello in cui i cani vanno in caffetteria invece che correre al parco».

Ma per Satanassi la questione è ancora più profonda e riguarda molto da vicino la natura umana: «È ora che ci diciamo una verità scomoda: tra il mangiare gli animali e addomesticarli non c’è poi tutta questa differenza. Sia la macellazione che obbligare un cane a vivere in un appartamento in città partono dal presupposto che la bestia debba soddisfare un bisogno umano. Che sia un bisogno biologico o psicologico poco importa».

E a chi replica affermando che il proprio cane sta bene ed è felice Satanassi risponde con un sorriso: «non è così, è una visione della natura naif che non fa i conti con quello che è la natura realmente. Un cane in città non è rispettato per la propria natura e sopravvive in una forzatura che gli viene imposta per un benessere psichico del proprio padrone. È anche lui un animale sfruttato. Questo quando non viene obbligato a dormire sotto al tavolo di un bar, magari con addosso maglioncini e occhiali».

I padroni dei cani quindi sarebbero egoisti nello sfruttare il proprio “amico” a quattro zampe. Questo significa anche che «che magari quella legge è sbagliata o non necessaria. Ma in fondo Starbucks solleva una questione sostanziale: ma cosa ci va a fare un cane in caffetteria? «L’unico esito è che, visto il suo olfatto 3 milioni più sensibile di quello umano, gli odori del bar attivano la gastrina e colecistochinina che fanno venire una gran fame al cane che però, nella maggior parte dei casi, non verrà sfamato perché è a dieta».

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