Quel giorno, Shaun aveva deciso di scendere al fiume. Respirò i profumi della foresta e iniziò a camminare. Aveva fatto pochi passi, quando il lupo gli sbarrò la strada. Ringhiava piano, senza mostrare i denti. Un avvertimento, ‘Fermati’.

Shaun si fermò. Il lupo lo costrinse ad arretrare e a infilarsi nel cavo di un albero. Rimasero lì un’ora, forse più. Poi, dalla foresta, spuntò il branco, e allora Shaun ebbe via libera. Seguito dai lupi, scese al fiume. Quasi per caso, notò su un tronco i segni di enormi unghie e sul terreno tracce di escrementi. Un orso se n’era appena andato. Il lupo aveva salvato la sua vita e quella del branco, o viceversa.

Shaun Ellis, cinquant’anni, da Great Massingham, Norfolk, Gran Bretagna, è l’uomo dei lupi, soprannome guadagnato dopo aver trascorso diciotto mesi dentro una tana degli animali cattivi per antonomasia.

Ellis è stato ospite della dodicesima edizione di Torino Spiritualità, festival nato dal Circolo dei Lettori, che si è chiuso domenica scorsa. Titolo 2016 ‘Distinti animali’, dove un apostrofo segna la differenza tra istinti e distinzioni.

Il curatore Armando Bonaiuto ne sintetizza così il significato «La massima alterità di sguardo sull’uomo è quella dell’occhio animale. Un’alterità peculiare, perché gli animali rappresentano un ‘altro da noi’, eppure ci vivono accanto, con alcuni c’è un rapporto di domesticità, di stupore verso i meno conosciuti. Incrociando lo sguardo domestico o selvatico di un animale, se abbiamo la pazienza di soffermarci avvertiamo inquietudine. È uno sguardo che non è stato apparecchiato per noi, che contiene l’immagine di qualcosa a noi precedente».

Lo sguardo di Shaun appartiene a un volto adesso rotondo, ma ben più affilato nel 2002. È l’anno che vede il cittadino di Great Massingham varcare i confini dell’Idaho, deciso a spendere con i lupi un frammento della sua vita. Di quell’esperienza Shaun è restio a narrare i dettagli, e ciò gli è valso accuse di millanteria a volte neppure troppo velate.

Non una foto, non un filmato a provarla. Parliamone dopo, Shaun. Adesso vogliamo chiederle se ricorda il momento in cui i lupi sono entrati a far parte dei suoi pensieri.

«La connessione si è accesa durante una visita a un zoo safari. Lì, per la prima volta, vidi i lupi in relativa libertà». Non era però vera libertà, e nella mente di Ellis prende corpo l’idea di provare a capire cosa significhi. C’è un solo modo possibile. Condividerla. Shaun parte per l’Idaho, pianta la sua tenda in mezzo alla foresta, poco distante da un insediamento di Nativi Americani, e aspetta che qualcosa succeda.

Il primo lupo gli si avvicina dopo sette mesi. «Provai, ovviamente, paura, e insieme ansia, eccitazione. Mi chiesi fino a che punto sarei riuscito a comunicare che non ero ostile, che chiedevo di essere accettato».

Il lupo, poi i lupi, lo studiano a lungo, e un giorno Shaun capisce di poter entrare nella tana. Iniziano così diciotto incredibili mesi, che lo vedono diventare da estraneo membro del branco, fino ad assumere il ruolo di paciere delle liti e custode dei cuccioli mentre gli adulti vanno a caccia.

È una strada lastricata di inquietudini, tensioni, sforzi per decodificare i messaggi che gli arrivano.

«Se dovevo sottomettermi, mi sdraiavo a pancia in su, mostrando la gola, e un lupo la addentava con delicatezza. Imparai a fare la stessa cosa; a scegliere il posto giusto durante la spartizione del cibo, un momento di grande tensione. Imparai che i lupi ‘si parlano’ in modo molto dettagliato, servendosi dei movimenti delle orecchie, assumendo determinate pose, coprendosi il muso con una zampa, emettendo ringhi diversi a seconda della circostanza; che il suono di ogni ululato è un segnale ben preciso; che era necessario dissimulare quanto più possibile il mio corpo».

Ellis impara, sopra ogni altra cosa, come l’etichetta di lupo cattivo sia frutto di equivoci e di ignoranza.

«Dire che i lupi sbranano i vitellini di una mandria perché rappresentano facili prede è sbagliato. Anzitutto, in loro difesa intervengono gli esemplari adulti, pronti a lottare. In secondo luogo, dei vitellini il lupo mangia solo le interiora, che conservano residui del latte poppato. Il latte ha il potere di restituirgli la calma necessaria per sfuggire all’uomo che lo insegue e lo vuole uccidere».

Come le è apparso il mondo dopo essere uscito dalla tana?

«Pensavo che la vera difficoltà sarebbe stata adattarsi ai lupi. Invece è stata riadattarsi agli umani. Gli odori dei lupi sono pochi e delicati, nel contesto umano, invece, sono molto forti, quelli di un supermercato, di un profumo. Addosso mi portavo l’odore del branco. Se incrociavo mucche e cavali nelle campagne, dovevo subito cambiare strada perché scappavano terrorizzati».

A chi dubita del suo tempo con i lupi, cosa risponde?

«In condizioni normali puoi scattare una foto, girare un film. Altra cosa è farlo in un ambiente come quello dove ho vissuto. Non diventa solo un problema pratico, ma soprattutto etico. Inquina il senso, lo spirito, di ciò che stai facendo. Penso di aver documentato la mia esperienza attraverso quanto i lupi mi hanno insegnato. L’unico giudizio che mi interessa è il loro giudizio».

Shaun Ellis ha fondato il Wolf Centre nella Riserva Naturale di Combe Martin, North Devon, trecento chilometri da Londra. I lupi amano anche Ilsa, sposata cinque anni fa nel Devon con il cerimoniale dei Nativi.

INTERVISTA A JAMES MEYERS EX DOCENTE DI LETTERATURA INGLESE CHE HA FONDATO IN INDIA UN RIFUGIO PER ANIMALI

Quindici anni fa, James Meyers ha lasciato l’Occidente per il Rajasthan, scegliendo di vivere a Udaipur. Una delle cose che ha dovuto imparare in India è come catturare i cobra.

Di mestiere, James non fa l’incantatore di serpenti. Cattura il cobra, lo mette in una scatola e infine gli dà il largo a debita distanza, solo per liberarsi di una scomoda e tutt’altro che rara presenza. Ucciderlo sarebbe sacrilegio, poiché il micidiale rettile è legato al culto di Siva. E il dio, tra i molti suoi epiteti, annovera quello di ‘Colui che salva il mondo ingoiando il veleno’.

Ma qualcosa di più del cobra lega Siva e Meyers. Se (altro epiteto) il primo è ‘Signore degli animali’, il secondo, a Udaipur, ha fondato con la moglie Erika l’Animal Aid Charitable Trust, centro per la salvezza degli animali di strada. Oggi questo ex Long Distance Voyager, ex docente di letteratura inglese presso la University of California di Los Angeles, ex hippie a tempo determinato, ha settantacinque anni. La sua fluviale parlata riecheggia tra i soffitti d’epoca del Circolo dei Lettori.

Good Morning, mister Meyers. Vogliamo cominciare dai suoi viaggi, più di mezzo secolo fa?

«Furono due i paesi che allora, nel 1961, ebbero uno speciale impatto su di me: Israele, con un’esperienza successiva di sei mesi in un kibbuz, e l’India. Ero un ragazzo figlio di un ufficiale, venivo dalla California, non conoscevo che l’inglese. Con questo bagaglio di vita troppo leggero arrivai in India, e nell’arco di poco tempo io, cristiano episcopale, mi trovai a riconsiderare la divisione tra Bene e Male; l’uomo, la donna, il concetto di giustizia stesso, iniziarono ad apparirmi sotto una luce completamente diversa».

Nel 1977, professore universitario, lei viene a sua volta emarginato perché vuole adottare per il suo corso un libro, Another Country, di James Baldwin, che affronta i temi della discriminazione razziale e omosessuale. Quella circostanza contribuì a maturare in lei le scelte che la faranno tornare in India e aprire il Centro?

«Dopo aver abbandonato l’insegnamento, diedi vita a una Comune insieme ad alcuni studenti e professori che mi avevano seguito. Fu un periodo un po’hippie. Discutevamo di diritti, uguaglianza, pace. Tutte cose che riguardavano la società degli uomini. I problemi della società degli animali mi erano completamente estranei. Qualche tempo dopo fui chiamato a partecipare a un progetto in Israele, lì conobbi la mia attuale moglie, e poi a un altro, in Australia. Lì ci rimasi sei anni. Furono due ‘passaggi’ che sconfissero definitivamente le mie paure rispetto alla Diversità. Non lo sapevo, ma questo avrebbe pesato non poco sulla decisione di soccorrere gli animali di strada e di farlo in India».

In Asia gli animali domestici, penso ai cani, sono randagi, malati, abbandonati. Analoga sorte tocca ad altre specie. Lei fonda, nel 2002, Animal Aid e, in più, chiede alla gente di parteciparvi. Utopia?

«Al contrario di quanto si crede, il karma hindu nutre un profondo rispetto per gli animali. All’interno dell’induismo, la corrente religiosa del Gianismo insegna che ogni essere è un’anima indipendente ed eterna, dall’insetto all’uomo, e predica l’assoluta non violenza, Secondo Gandhi, una civiltà si giudica anche da come tratta gli animali ‘spiacevoli’. Il cobra, ad esempio. Ma come può, il popolo indiano, immensamente povero, rispettare questi precetti? Questa sì che sarebbe un’utopia. Al nostro arrivo in India, insieme a nostra figlia di dieci anni, Erika ed io avevamo in mente di aprire un orfanotrofio. Viaggiando attraverso il Paese, ci rendemmo conto che non esisteva alcuna forma organizzata di soccorso agli animali. Cominciammo a pensare che questo poteva essere il nostro obiettivo. La spinta finale arrivò dall’incontro con un cane randagio, un collare gli aveva causato un’infezione orrenda. Ci avvicinammo e scappò. Lo ritrovammo in casa nostra, sotto la coperta del letto. Pensai ‘Chissà quanti cani in queste condizioni finiscono nelle case e portano malattie. La loro sofferenza può causare sofferenze’. Salvare un animale abbandonato, pensateci bene, significa salvare indirettamente delle vite umane. Quel cane scappò dall’ospedale in cui lo avevamo portato e, dopo molte insistenze, lo stavano curando. Ma fu lui a indicarci la direzione da prendere. Animal Aid cominciò da una stanza della nostra casa. Il radicamento del Centro nel tessuto sociale cui appartiene, il suo continuo sviluppo, hanno accresciuto la sensibilità e la partecipazione della gente. Oggi riceviamo decine di segnalazioni al giorno».

E oggi Animal Aid gestisce un rifugio e un ospedale su quattro ettari di terreno in affitto ventennale. Ha curato finora cinquantamila animali di comunità. Attualmente accoglie 250 cani, 75 mucche, 50 asini, 20 uccelli, 2 maiali, 3 tartarughe, una scimmia. Gli ospiti che all’esterno non riuscirebbero a sopravvivere sono centocinquanta. Una cinquantina le persone che ci lavorano, due le ambulanze.

Per concludere, mister Meyers: cosa risponderebbe a un occidentale, se le dicesse che prima vengono gli uomini e poi gli animali?

«Gli chiederei: ma un occidentale ha il diritto di porre questa domanda?»

PHILIP HOARE, ANGELICHE BALENE

La prima parola delle tante che Philip Hoare avrebbe scritto e pronunciato parlando di balene, ha un suono secco e un significato inequivocabile: Fuck. La troverete nel suo libro, Leviatano, pubblicato da Einaudi, al capitolo ‘Emersioni’, Hoare è su un battello che a Provincetown, Massachusetts, organizza escursioni di whale watch «A poca distanza, una grande e lucida massa grigionera uscì dal pelo dell’acqua per immergersi quasi subito. In men che non si dica eravamo circondati da balene… Dimentico del fatto che la barca era piena di bambini, mi lasciai scappare un sonoro ‘Cazzo!’». Fuck. I genitori di Hoare mai avrebbero scommesso che quel bambino così timoroso dell’acqua fonda sarebbe diventato scrittore di balene e affabulatore in tema per la BBC.

Era però successo un episodio che poteva lasciarlo intuire. Durante la gravidanza, la madre di Philip, in gita con il marito a Plymouth, fu colta dalle doglie mentre visitava un sommergibile. Falso allarme, comunque avviso del destino. Hoare venne al mondo a Southampton nel 1958, e gli occorse un quarto di secolo per decidersi a nuotare.

Oggi si tuffa una volta al giorno, rito adempiuto nei giorni di Torino Spiritualità ignorando la scarsa salute del Po. Identico estremismo, il divulgatore di balene ha dimostrato nell’interesse verso le creature marine. Niente polpi, calamari, pescecani, ma subito cetacei.

Cosa sottendeva quel fuck pronunciato la prima volta delle balene?

«Mi apparve qualcosa di soprannaturale, quasi di angelico. Vidi nella balena un ponte tra noi che respiriamo, subiamo la forza della gravità, e un mondo a tre dimensioni, alieno».

Le balene hanno cambiato la sua vita?

«Certamente. Mi hanno fatto vincere la fobia per l’acqua, hanno smesso di apparirmi mostri che abitavano i mari; studiarne i cambiamenti nei millenni ha contribuito a influenzarmi positivamente. Il rapporto con loro mi ha portato a interessarmi a quei movimenti che lottavano e lottano contro lo sfruttamento della terra fin dagli anni ’60. Oceani e balene mi sono entrati dentro. Sento di poterlo dire».

Il suo lavoro è un contributo alla difesa dei cetacei, oppure è soltanto nobile divulgazione?

«Il mio compito consiste nel celebrare la bellezza della balena, evidenziare gli aspetti spirituali a lei collegati, colmare il divario che esiste in proposito tra il sapere comune e il sapere degli scienziati».

Elemento di sfondo del periodo storico raccontato in Leviatano è il romanzo Moby Dick, di Herman Melville. Il capitano Achab odia il gigante, colpevole di averlo mutilato di una gamba, ma si intuisce in lui anche una specie di amore.

«Un vecchio baleniere delle Azzorre mi raccontò che molti di loro, quando erano a riposo, scrutavano l’orizzonte dalle scogliere, cercando le balene. Volevano vederle perché le amavano. Amavano chi domani avrebbero ucciso. Un grande paradosso. Melville, attraverso Achab, afferma che è l’uomo a incarnare il male nella balena, mentre ne è lui il vero propagatore».

Il lupo di Jack London, la balena di Herman Melville. Quali le differenze tra i due, animali a parte?

«London rappresenta l’animo pioniere; l’animo, mi passi il termine, macho. Melville possiede invece un lato femminile, una certa raffinatezza. Infatti, a differenza di London, ebbe scarso successo commerciale».

Il Po non nasconde balene. Ma, ci puoi scommettere, a Philip Hoare piace immaginarlo.

Gallinae in fabula

È il nome, non privo di positiva ironia, scelto da una Onlus con sede a Roma, che opera sul territorio nazionale. Gallinae agisce su diversi fronti, con la finalità primaria di arrivare alla liberazione animale individuando gli strumenti pratici per raggiungerla. Il lavoro di ricerca sulla teoria della diversità punta a divulgare nelle società contemporanee l’antispecismo e i suoi principi. Il dialogo tra le varie associazioni e coordinamenti si propone di mettere a punto strategie e sinergie in grado di perseguire l’obbiettivo comune della liberazione animale.

Ruolo fondamentale riveste il blog di Gallinae, interscambio di idee e opinioni tra modi differenti di intendere animalismo e antispecismo, che, secondo la Onlus, si trovano a coincidere.

Per informazioni, gallinaeinfabula.com

Libri bestiali

Richard C. Francis, tra gli ospiti di Torino Spiritualità, studioso dei meccanismi messi in atto dall’uomo per addomesticare gli animali, ha pubblicato diversi saggi sull’argomento. Addomesticati (Bollati Boringhieri, € 25), è un ampio excursus che partendo da volpi e cani arriva agli esseri umani, passando per suini, bovini, cammelli, roditori…

Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali? è il provocatorio titolo del libro di Frans de Wal (Raffaello Cortina Editore, € 29). Wals, con esempi concreti, mette in discussione il primato dell’intelligenza umana su quella animale. E lo dimostra per capitoli tematici che trattano di pecore e pipistrelli, polpi e delfini, scimpanzé e vespe. Entrambi i testi sanno essere allo stesso tempo rigorosi e molto piacevoli da leggere.

Ringraziamenti

Grazie a Bianca Maria Petitti, Lorenzo Burgo e Andrea Del Sette per il prezioso lavoro di traduzione ‘in diretta’

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