Quando guardo quel pupazzo di peluche, sghembo e sporco, penso che Rimba ci ha lasciato troppo presto, o troppo tardi.

Lo conobbi che era già decrepito. Aveva lo sguardo più sconsolato che abbia mai visto in un essere vivente. Stava appiattito in fondo al box, e grattava il muro grigio come se volesse scomparirci dentro.

Avevo deciso di prendermi un cane, ma non volevo comprarlo: perché pagare, pensavo, se posso salvare un cucciolo abbandonato. Presi l’auto e scelsi un rifugio di periferia, forse lì avevano davvero casi disperati. Ma entrando vidi solo cagnolini bellissimi, scodinzolanti, tutti intenti ad attirare la mia attenzione con un guaito o un vezzo, tutti pronti a saltarmi in braccio.

Francesca ne avrebbe portati a casa almeno dieci, ma con i nostri cinquanta metri quadri più balconcino potevamo permettercene al massimo due.
Mentre cercavo un qualunque criterio di scelta, sentii uno strano rumore. Uno straziante tentativo di abbaio, il più singolare bau che avessi ascoltato. In quel guaire sinistramente tragico c’era un abisso di solitudine e disagio. Cercai la fonte di quel rumore e mi girai. Non so quante volte ho ripensato a quel momento, e me ne sono chiesto il perché. L’etologo della Tv ha spiegato che sono loro, i cani, a trovarci, non noi loro: Rimba trovò me, e io lo accettai senza sceglierlo mai.

Era nella penombra di un box meno pulito e meno luminoso degli altri. Lo avevano messo li perchè sapevano che nessuno lo avrebbe scelto, troppo vecchio, troppo brutto, troppo tutto. Era un incrocio assurdo, aveva una massa di pelo nero sporchissimo e puzzolente, un solo occhio abile, l’altro pieno di cataratta, Era quasi sordo e camminava male per via dell’artrosi. Con quell’unico occhio mi squadrava guardingo: troppe le delusioni nella sua vita da carcerato senza colpa. Mi avvicinai e ringhiò subito, mostrando quel che restava dei suoi denti.

La volontaria mi disse: sa, lui è così, poco affidabile, lo lasci stare, venga a vedere Fiocco. Capivo la sua missione, lei voleva far adottare tutti i cani del rifugio, non perdere tempo sull’unico impossibile da piazzare. Però volevo capire qualcosa di più sulla natura del suo straziante abbaiare. Chiesi come si chiamasse, lei disse Rimba. Simba, risposi, come il re leone. No no, proprio Rimba, perché è rimbambito…

Intanto Francesca aveva scelto. Fiocco, con quel musetto nero e quel pelo immacolato, era perfetto, sembrava un cane da spot, un cane Disney. Lo portammo a casa, e subito divenne padrone della nostra vita. Bastava uno sguardo, una corsa in corridoio a renderci ebbri d’amore.

Eppure continuavo a pensare a Rimba. Una sera mi decisi a parlarne a Francesca, ti ricordi la visita al canile, ce n’era uno che avrei voluto salvare. Lei mi gelò: mica starai perlando di quel cane brutto e vecchio che puzzava come una fogna. Chiusi la discussione e tornammo a coccolare Fiocco.

Passò un mese, ma non riuscivo a dimenticare. Tornai al canile, trovai un veterinario che mi raccontò la storia di Rimba. Lo avevano trovato a Ponticelli, una sera fredda , inebetito dalla fame, fermo sul ciglio della strada mentre le auto gli sfrecciavano davanti. Portava il collare e i segni di una violenza di cui solo l’uomo è capace. Qualcuno lo aveva custodito: male, ma lo aveva custodito. Quando lo presero, per salvarlo da una morte certa, morse tutti. Forse voleva farla finita su quello stradone, tra le prostitute nigeriane e i cartelli pubblicitari. Aveva 12 o 13 anni. Rintracciarono il padrone, ma lui, che da cucciolo gli aveva dedicato le attenzioni del suo bastone, da vecchio non lo voleva più, disse: o v’o pigliat’ o l’accir. Ecco da dove veniva quella diffidenza: Rimba non aveva conosciuto amore, forse neppure aveva mai ricevuto una carezza.

Chiesi al dottore se era possibile adottarlo, lui mi guardò stranito: penso di sì, nessuno ce l’ha mai chiesto, eravamo rassegnati a nutrirlo e a vederlo morire in gabbia. Quella risposta rafforzò il mio intento. Volevo che Rimba si riappacificasse col mondo, volevo fargli capire, anche se non sapevo come, che l’amore esiste, che la vita non è solo mazzate e solitudine. A nulla valsero i tentativi di dissuadermi. Infine aprirono la gabbia e il più robusto tra i volontari entrò per farlo uscire. Rimba si schiacciò sulla parete come un bassorilievo, l’altro gli gridò: dai, esci. Abbaiò, ringhiò e poi, per inseguire un biscotto ammuffito, si decise a uscire. Gli misero al volo il guinzaglio e mi salutarono: in bocca al lupo.

Ero felice e preoccupato? Come l’avrebbe presa Francesca? E come si sarebbe comportato Rimba con Fiocco, l’avrebbe aggredito? Dopo un paio di morsi riuscii a caricarlo in auto e a metterlo sul sedile accanto a me. Sarà stato il riscaldamento, sarà stata la mia guida morbida, si addormentò. Arrivati a casa, per farlo scendere mi beccai altri due morsi, uno mi fece sanguinare, e anche parecchio. Salimmo le scale, suonai il campanello con il cuore in gola, Rimba era lì, diffidente, aggressivo.

Francesca aprì la porta e alzò gli occhi al cielo: lo sapevo che l’avresti preso, e ora, e ora… Fiocco gli corse incontro, con la fiducia ebete di un cucciolo. Miracolo: Rimba non abbaiò né lo aggredì. Accettò le coccole di Fiocco, poi lo piantò lì e si arrampicò su una poltrona vecchia quanto lui, che scelse come casa.

Le prime settimane furono davvero difficili. Rimba sporcava tanto, non si faceva accarezzare, abbaiava sempre, meno male che Fiocco ogni tanto lo calmava: faceva sorridere quel duo surreale, un vecchio cane nero e un cucciolo bianco come la neve. Francesca continuava a lamentarsi perché non si vedeva nessun segno di redenzione in Rimba, mai un avvicinarsi, mai una leccatina: un estraneo in casa di estranei. Mi ero rassegnato: avevo fatto un’opera pia ma non potevo sperare di far capire a Rimba che cosa significhi avere un posto speciale nel cuore di un altro. Forse ricordava le botte e le umiliazioni, forse si aspettava che all’improvviso sarebbe finito tutto: le crocchette al pollo, le dormite pomeridiane, il sole che scalda le zampe.

Quattro mesi di convivenza mi avevano fatto perdere ogni speranza di stabilire con lui un rapporto cane-padrone. Lo portavo giù malvolentieri, al rientro si metteva sulla poltrona che ormai aveva il suo odore, e finiva li.
Una sera piovosa tornai a casa tardi. Fiocco dormiva nel letto matrimoniale, accanto a Francesca, Rimba era solo sulla poltrona. Sentii un lamento: guaiva come se stesse vivendo un’esperienza terribile, il respiro era affannoso. Preso da un improvviso spavento, lo accarezzai d’istinto e subito me ne pentii, aspettandomi il solito morso. Invece Rimba si svegliò con uno sguardo diverso, avvicinò la testa al mio corpo, cercando protezione, e mi leccò la mano. Non riuscii a trattenere le lacrime. Forse ero riuscito a fargli capire che cos’è l’amore.

Dopo quella sera, il rapporto cambiò. Rimba mi cercava, quando ero al lavoro dormicchiava solo, ma appena tornavo si alzava con fatica e restava ore accanto a me, come fossi l’unica certezza della sua vita. Avevamo iniziato a scendere più tardi la sera. Rimba sembrava sereno, quasi felice, ogni tanto provava persino a scodinzolare. Gli comprai un pupazzo di peluche, brutto come lui. Era come regalare la playstation a mio nonno, ma ci provai.

Quel pupazzo, un orso o forse una scimmia che chiamai Cita per la sua tragica bruttezza, divenne sorella, amica, moglie di Rimba. Erano inseparabili. Una mattina Francesca decise di metterla in lavatrice, Rimba la cercava impazzito, si calmò solo quando lei gliela gettò di nuovo nella cuccia, il peluche ammaccato dal lavaggio, un occhio partito, ma era sempre Cita.

Passarono un inverno, un’estate, un inverno. Io Rimba e Cita eravamo diventati un micromondo. Francesca ogni tanto provava a entrare, e Rimba non era più infastidito. Il veterinario si meravigliava della sua ripresa emotiva: aveva sempre i suoi acciacchi, era diventato anche incontinente, ma sembrava aver fatto pace con l’uomo.

A luglio prendemmo una casa in affitto sulla spiaggia, piccola ma con uno spazio esterno. Fiocco era strafelice, muoveva la codina come il deflettore della mia Panda. Rimba invece scelse l’angolo più buio della casa, e ci passò una settimana. Fino al giorno in cui successe qualcosa.

Quel giorno, Rimba si alzò dalla sua cuccia, lasciò Cita a terra e trotterellò verso la spiaggia. Camminava velocemente, correre per lui sarebbe stato impossibile, schivando ombrelloni, bambini impauriti, venditori di cocco. Arrivato alla riva si fermò, respirò a pieni polmoni, entrò in acqua. Sembrava un nuotatore paralimpico, che in acqua trova il suo elemento. Mi chiesi dove avesse potuto conoscere il mare a Ponticelli. Dopo qualche minuto risalì a riva e tornò a casa con me.

Nei giorni a seguire continuò a scendere a mare, infischiandosene dei rimproveri del bagnino e dei villeggianti. Non faceva male a nessuno, voleva solo trovare un po’ di pace tra le onde inesistenti del litorale domizio, e poi tornare da Cita. Il veterinario, che informai, rimase basito, però mi disse di incoraggiare quella sua strana abitudine: Rimba era alla fine di una vita che solo negli ultimi anni lo aveva gratificato, non avrebbe avuto senso privarlo delle sue fughe marine.

Trascorremmo l’estate tra la casupole ed il mare. La sera suonavo la chitarra, Rimba distendeva il capo sulla mia gamba e ascoltava le canzoni delle estati passate, quelle che aveva trascorso legato a una catena. Mi meravigliavo del nostro rapporto. I giorni delle mani piene di morsi sembravano lontani cent’anni, invece ne erano passati solo due.

Capivo che quella sarebbe stata l’unica e ultima vacanza al mare con Rimba. Il respiro era sempre più affannoso, i dolori dell’artrosi sempre più implacabili. Il veterinario mi consegnò una sentenza che avrei voluto dimenticare. Non sapevo che fare, se mettere fine alle sue sofferenze come il medico consigliava, o se aiutarlo a vivere nel modo meno atroce possibile i giorni che gli restavano. Ma la vita è strana, o forse solo saggia, e come due anni prima fu il destino a fare la sua magia.

L’ultimo giorno di vacanza, presi Rimba e lo portai a mare. Erano le sei di pomeriggio, e con le giornate ormai meno lunghe e meno calde, la spiaggia era semivuota, solo qualche fanatico dell’abbronzatura si attardavano sui lettini del lido Gabbiano. Rimba portò con se anche Cita, la adagiò sulla riva, e quello che mi parve un cenno del suo occhio sano mi convinse a seguirlo. Nuotammo insieme, lui mi seguiva, si avvicinava, sembrava al culmine della felicità. Passammo parecchio tempo nell’acqua poco cristallina, poi tornammo a casa. Accesi la Tv, c’era un vecchio western in bianco e nero di quelli che piacciono a me, L’uomo che uccise Liberty Valance. Rimba lo vide accanto a me, si accoccolò come un cucciolo, come Fiocco, come non l’avevo mai visto fare prima, e si addormentò.

Quella fu l’ultima sera che Rimba trascorse sulla terra, questo luogo impervio dove aveva passato dodici anni di schifo e due scarsi buoni.

Non dimenticherò mai la sua gratitudine, il suo fiuto per il mare che racconto come una fiaba ai volontari del canile dove ho deciso di lavorare. Seguo i casi difficili, i cani maltrattati e aggressivi, o disabili, o solo talmente brutti che nessuno li vuole adottare. I suoi occhi, tatuati nel mio cuore, mi parlano ogni giorno attraverso i mille randagi che vedo arrivare. Nella tasca destra del camice che indosso tra le 16 e le 20 conservo quel che resta di Cita, tutta spelacchiata, ha perso anche il secondo occhio, ma conserva l’odore di Rimba. Mi aiuta lei a essere forte. Qualche volta, nelle sere d’estate, insieme andiamo a riva, la metto accanto a me e ripensiamo a Rimba che nuotava, e che forse nuota ancora, altrove.

Sono Roberto, ho quarant’ anni e sono diventato un volontario Enpa perché un brutto muso peloso mi ha fatto capire che a volte per amarci ci vogliono giorni o mesi, ma che nessuno deve volare via senza un’attenzione, senza una carezza.

Le immagini della gallery sono tratte dal libro fotografico Plato’s Dogs di Thomas Roma and Giancarlo T. Roma, pubblicato da PowerHouse Books.

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