Io me lo ricordo quando siamo andati a casa assieme. Era un giorno di sole e la foglie erano gialle e rosse e quando ci camminavo sopra scricchiolavano rumorose. Mi ricordo che mi appoggiavi piano per terra e ridevi vedendomi incerto a zampettare su quelle foglie mentre mi giravo al suono della tua voce, cercando i tuoi occhi e la carezza della tua mano.

Mi ricordo di quando quelle foglie sono diventate un’umida poltiglia nascosta da uno strato bianco di neve. Che era fredda, ma così morbida che ci affondavo tutto fino al collo. E tu correvi con me, io andavo avanti e tu restavi un po’ più indietro. Ma io ti aspettavo, non ti avrei mai lasciato solo.

Ti aspettavo ogni giorno. Aspettavo la tua voce che mi raccontava la sua giornata. Capivo quando era stata una buona giornata, quando al lavoro il tuo capo non ti aveva maltrattato, e capivo quando invece ti avevano fatto arrabbiare. Allora mi sedevo buono vicino a te: infilavo la mia testa sotto al tuo braccio e cercavo di farti ridere, come quel giorno in cui eravamo andati a casa assieme e io facevo scricchiolare le foglie.

Ti aspettavo anche quando avevi troppo da fare per passare del tempo con me: quando uscivi al mattino e tornavi la notte. Sono paziente e non conosco il rancore: so che nella vita ci sono della cose importanti e ho imparato che ce ne sono molte prima di me. Ho trascorso la mia vita ad aspettare la tua, a cercare il tuo cuore scavando tra i cuscini del tuo divano. Non l’ho trovato spesso, il tuo cuore: ma qualche volta l’ho visto e ho imparato a riconoscerlo.

L’ho riconosciuto nelle tue lacrime quando il tuo dolore aveva un sapore salmastro che sentivo sulla punta della lingua. L’ho riconosciuto quando sei tornato a casa, un giorno, con un fagotto che profumava di talco e di pipì, e che mi ha fatto finire in un angolo buio di quel cuore. Non mi serve la luce, mi basta il buio se quel buio è un posto che conosco. E il tuo cuore io lo conosco, so che mantiene un posto per me.

Anche oggi ti aspetto. Anche oggi che fa caldo e di foglie gialle e rosse per terra non ce ne sono. Anche oggi che le mie zampe sono arricciate dall’artrosi e non mi permettono più di correrti davanti e fermarmi ad aspettarti. Anche oggi io ti aspetto, anche se non so dove sono, non conosco questa strada in cui continuo a girare cercando il tuo profumo, la tua traccia. Ma il mio naso non è più buono, o forse la tua traccia se ne è andata via con te e allora è meglio che io torni là dove mi hai lasciato: verrai a prendermi e mi solleverai in braccio come quando ero piccolo e avevamo ancora un sacco di giorni da vivere assieme.

Ho fiducia nel tuo cuore. È il solo cuore che conosco. Tornerai a prendermi con una ciotola piena d’acqua dove potrò dissetarmi e una scatola di pappa che io mangerò troppo velocemente. E poi mi farai risalire in macchina dove c’è la mia coperta, quella col mio odore, quella in cui mi addormentavo quando facevamo dei viaggi lunghi a scoprire il mondo. Che ne abbiamo visto un bel po’ eh, di mondo? Per questo so che tornerai e continuo ad aspettarti: esattamente qui dove mi hai lasciato. Anche se sono passate un po’ di notti e qualche giorno, io so che presto vedrò spuntare la tua macchina in fondo alla strada e allora sarà di nuovo come il giorno in cui siamo andati a casa assieme e tu sarai felice di avermi con te e io sarò felice di essere con te.

Fai presto però, perché io sono paziente, ma il mio cuore batte lento, lo sento stanco, pesante di fatica e di paura. Allora mi accuccio: quando arriverai, se tu non riuscirai a vedermi, alzerò la coda a salutarti e festeggiare il tuo ritorno.

Fai presto, davvero, perché ho gli occhi pieni di nebbia e ho paura di non riuscire a vederti, a riconoscere la tua mano che si abbassa ad accarezzarmi la testa, a grattarmi le orecchie.

Fai presto, ti prego, perché non sento più le zampe: me la sono fatta addosso e ho paura che quando arriverai non riuscirò a saltarti in braccio.

Fai presto perché io ho vissuto la mia vita con te: ogni volta che ho avuto paura ho trovato rifugio in te. E oggi che di paura ne ho davvero tanta, oggi che sento che il cuore mi abbandona ho bisogno di te: di guardare i tuoi occhi mentre i miei si chiudono tranquilli come hanno fatto ogni notte quando il sonno che li attendeva era di ore e non di sempre.

Torna a prendermi: fammi morire vicino a te.

Qualche giorno fa, l’assessore al Bilancio del Comune di Imola ha dichiarato, in sede di Consiglio, che i cani in esubero nel canile vanno abbattuti. A poche ore dalla disgraziata uscita, il sindaco ha corretto il tiro, specificando che le parole del suo collega erano dettate dall’impossibilità di concedere un bonus fiscale a chi adotta un cane abbandonato in un momento di crisi tale da non consentire di aiutare nemmeno le famiglie degli imolesi.

Vorrei ricordare a questo assessore imprudente (perché oggi mi sento politicamente corretta) che il canile della sua città è pieno di cani che i suoi concittadini hanno abbandonato, ad ennesima certificazione del fatto che se il cane è il migliore amico dell’uomo, l’uomo non lo è di certo del cane.

I cani, caro assessore, non si abbandonano e di sicuro non si abbattono. Se lo segni e cerchi di non dimenticarlo mai più.

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