Quando sto male, Milo si stressa moltissimo. Gira per casa senza pace, si placa solo all’arrivo del medico. È il mio baby-infermiere, anche se poi, per lo spavento preso, per ore non vuole esser toccato. Più spesso mi fa da copy editor. Si piazza dietro il MacBook, e poiché è piccolino gli si vedono soltanto le orecchie. Così un’amica l’ha chiamato iMilo: il primo Mac con gatto incorporato. Apple, quanti soldi faresti! Anche se quando fa il monello minaccio di mandarlo all’asilo, so che Milo, come tanti pelosetti d’affezione, non mi lascerà mai. È fortunato, moltissimi animali hanno un mestiere. Che non hanno scelto, e per cui spesso rischiano la vita. Pensavo a questo giorni fa, leggendo di un’inchiesta del Pentagono sui maltrattamenti ai cani soldato tornati dall’Afghanistan. Allevati ed addestrati per sniffare bombe, per missioni letali, vengono poi dimenticati in gabbia, soppressi perché ormai inservibili, dati in affido, nel migliore dei casi, a gente impreparata per affrontare disturbi da stress post-traumatico (ce li hanno anche loro, lo sapete?).

Degli animali in guerra, le cronache raccontano le storie edificanti. Il marine che salva cani e gatti a Kabul, il soldato e il cane randagio che si salvano a vicenda, il labrador riunito al caporale accanto al quale aveva combattuto tanti mesi. Ma la ferocia della guerra, il dopo, non si racconta mai. Gli animali dilaniati da ordigni esplosivi, il loro strazio, se sopravvissuti, nel doversi staccare a fine servizio, dal soldato diventato il loro umano. Folco Quilici, scomparso di recente, aveva raccontato in un documentario gli animali nella Grande Guerra. Decine di milioni di cavalli, asini, maiali, piccioni viaggiatori e cani mandati a morire per la gloria di patrie indifferenti. «They had no choice», non ebbero scelta, recita l’epitaffio su un monumento a Londra, blando lavaggio di coscienza per cani usati come bombe, canarini avvelenati per rilevare gas letali.

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I cani salvati e quelli che cercano i superstiti: gli animali e il sisma

Oggi ci sono le bestie da soma e quelle da traino, c’è – ancora – la vergogna delle botticelle a Roma, che costringono i cavalli a lavorare con 40 gradi, quella di cani e di cavalli usati per le corse, dopati e poi soppressi, dei galgo dei cacciatori spagnoli uccisi quando non ce la fanno più. Animali schiavi, come i cavalli ribelli del Palio di Siena. Come le mucche che fuggono fiutando il mattatoio. Sarà un mestiere anche quello d’essere mangiati?

Ma è facile indignarsi per le corse dei cani, per il Palio. Che dire dei cani da soccorso? Quelli che dopo un terremoto, una catastrofe, scavano in cerca di persone ancora vive come fosse un gioco, ma per cui spesso muoiono?

Qualche anno dopo l’Undici Settembre, dove centinaia di cani erano stati utilizzati per la ricerca dei sopravvissuti, alcuni a costo della propria vita o delle proprie zampe, uno studio aveva offerto un alibi all’antropocentrismo. I cani, diceva, sono quasi immuni ai gas tossici, l’incidenza di tumori da inalazioni è minima. Non è proprio così, come sappiamo. La fatica immensa in questi salvataggi conduce gli animali a morte prematura. Sempre che non muoiano «durante», per sfinimento o infarto, perché se il conduttore non li ferma continuerebbero a scavare. Come Dayko, il cane morto di stanchezza dopo aver salvato sette vite nel terremoto in Ecuador di un paio d’anni fa. Aveva lavorato ore ed ore a fianco dei colleghi umani, poi si è accasciato stremato. A cinque anni, per il caldo, la disidratazione e perché gli era scoppiato il cuore. Dopo la valanga al Rigopiano, un anno fa, i cani del soccorso alpino hanno salvato due persone, aiutando i vigili del fuoco ad individuarle, scavando canali per permetter loro di uscire. I cani da soccorso vanno fra le macerie, senza paura e senza mai fermarsi, scavano fino a non aver più fiato, le zampe sanguinati, i musi pieni di escoriazioni. Angeli a quattro zampe, li chiamano, eroi. Come Leo, il labrador della Polizia che ritrovò la piccola Giorgia, rimasta sotto i calcinacci nel terremoto a Pescara del Tronto l’anno prima. Come Camilla, impegnata ad Amatrice e morta qualche mese fa, in una delle sue tante missioni. Cercava una persona scomparsa nelle campagne di Savona, è caduta da una roccia.

A Camilla, Amatrice ha dedicato una statua, i cani dell’Hotel Rigopiano sono stati ricevuti al Quirinale. Ma io mi chiedo, è giusto? Davvero desidero che un cane dia la sua vita per la mia? Perché c’è distinzione tra gli animali d’affezione, come Milo, e tutti gli altri? Chi fa da mamma ai cani da soccorso? Chi li abbraccia di notte? Soprattutto, noi scegliamo di fare i soccorritori: un cane no. A fronte di un fine nobilissimo, quello di salvare vite, come i cani mandati a morire in guerra, Camilla, Dayko e tutti gli altri non hanno avuto scelta. Un cane, per il proprio umano, si getterebbe nel fuoco. È giusto, sapendolo, sfruttare questa sua inclinazione, condannandolo a un’esistenza più breve?

Non ho risposte. Quando vedo un cane che salva dalle macerie una bambina, l’emozione è grande e piango anch’io. Ma non posso non pensare a cosa sarà del cane. Posso solo sperare, guardare Milo e stringermelo al cuore.

15 marzo 2018 (modifica il 15 marzo 2018 | 22:09)

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