Cannes. “Le moment chien”. Era un titolo su Les Inrockuptibles, qualche settimana fa, a corredo di un’intervista dove Wes Anderson racconta “L’isola dei cani” (ancora in sala, sbrigarsi). Una frase gli costerà le simpatie dei gattari: “Avete mai sentito di qualcuno che è stato salvato da un micio?” L’articolo parla del film – animazione canina con spazzatura giapponese – e di un saggio appena pubblicato dal filosofo francese Mark Alizart con il titolo “Chien”. Diffidiamo dei pensatori francesi, peggio che mai in accoppiata con la pensatrice americana Donna Haraway che fa da cane guida (in una conferenza mette insieme cyborg e animali da compagnia). Meglio stare rasoterra: manca nella lista il più bel film in concorso visto al Festival di Cannes.

“Il canaro” di Matteo Garrone – titolo internazionale “Dogman” – merita di vincere tutti i premi a cominciare dalla Palma d’oro. E’ magnifico nel suo squallore, ben scritto a partire da fattaccio di cronaca, ben recitato da Marcello Conte (nella parte del toelettatore di cani alla Magliana). Ha tutte le virtù. Non possiamo dire lo stesso di “Lazzaro felice” by Alice Rohrwacher, film adorato dagli stranieri affezionati all’Italia del sottosviluppo (tante storie per come Ridley Scott ha mostrato la Calabria anni 70 in “Tutti i soldi del mondo”, e ora dialetto e miseria son poesia?).

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Palma d’oro subito: siamo a un festival del cinema, non alle quote rosa. Assieme a tutti gli altri premi, compresa la “Palme Dog”, che a Cannes ormai è una tradizione (siamo generosi: la Palma per l’attrice potrebbero averla le femmine di “Shoplifters”, dirette dal giapponese Hirokazu Kore’eda). I cani che sfilano a farsi lavare, pettinare, limare le unghie, agghindare per il concorso di bellezza nel tugurio di periferia sono uno più bravo dell’altro, complimenti all’addestratore (e complimenti al regista, non deve essere stato facile. Nell’albo d’oro starebbero con il jack russell di “The Artist”, il carlino di Maria Antonietta nel film di Sofia Coppola, il cane disegnato per terra in “Dogville” – non sembra possibile, ma per un breve periodo della sua carriera Lars Von Trier è stato bravo.

“Il canaro” di Matteo Garrone è nelle sale da oggi, giusto in tempo per dare il via alle dispute tra garroniani e sorrentiniani. Altri cani – losangelini, anzi hollywoodiani – sono in “Under The Silver Lake” di David Robert Mitchell. I film americani sono benedetti, quando un festival scarseggia di soddisfazioni, e il regista viene dall’horror, genere che non può permettersi lentezze. Errore. Qui gli indugi ci sono, obbligatori per farsi invitare a Cannes in base a una legge non scritta ma vigente: il cinema di genere viene accolto tra i film d’arte e cultura solo se riesce male (bisogna evitare con ogni mezzo che i critici si divertano, quindi hanno inventato questa cintura di castità cinematografica).

Nel fumetto autoprodotto che dà il titolo al film, un attore degli anni 30 si suicida perché geloso di Rin Tin Tin. In giro c’è un killer di cani, belle ragazze bionde scompaiono dall’appartamento di fronte, il gruppo “Gesù e le spose di Dracula” dà concerti clandestini nelle cripte, le sbronze vengono smaltite sulla tomba di Hitchcock, la statua di James Dean al Planetario viene accarezzata perché così dice un messaggio appena decifrato (la piantina era in una scatola di biscotti conservata dall’infanzia). Sette segrete che promettono l’immortalità, teorie del complotto, un Compositore Universale – sua tutta la musica del mondo, dal rock al melodico – completano il delirante panorama. Due ore e venti minuti. Troppe per l’ horror citazioni – sta con l’ex Spider-Man Andrew Garfield sempre in scena.

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