Dalla Valle del rio Seazza, in Friuli Venezia Giulia, provengono i resti fossili dei più antichi rettili volanti noti alla scienza in tutto il mondo, vecchi di oltre 210 milioni di anni. Ed era proprio ai resti di uno pterosauro del Triassico che pensava il paleontologo Fabio Dalla Vecchia, quando nel 1984, ancora venticinquenne, si è imbattuto in un fossile molto particolare. Il fossile di un rigurgito.

Questo tipo di resti, chiamato in inglese gastric pellets, è molto meno famoso (e decisamente più raro) rispetto ai coproliti, gli escrementi fossili. Eppure è facile da distinguere: nei coproliti le ossa hanno subito la digestione, perciò hanno un aspetto poroso e sono diventate una massa informe. Nel caso di un rigurgito i resti conservati sono piuttosto grossi, non sono stati corrosi dai succhi gastrici ed è possibile (con le tecniche adatte) riuscire a identificarli. A scoprire, insomma chi o che cosa c’è in quel vomito.

Più di trent’anni dopo la scoperta, quando il fossile della Valle del rio Seazza ha ormai fatto il giro del mondo tra pubblicazioni e libri di testo, si scopre che a quanto pare non si trattava di uno pterosauro, ma di un grosso rettile

terrestre, un protorosauro, probabilmente la specie Langobardisaurus pandolfii. “Al tempo non erano molti i fossili trovati nella valle, solamente uno pterosauro e un rettile arboricolo, un Megalancosaurus“, spiega Dalla Vecchia. “Ma le ossa nel rigurgito sembravano quelle di uno pterosauro: erano tante, lunghe e rotte alle estremità. Questi rettili volanti hanno una caratteristica, ovvero un’ala sostenuta da un dito. Si tratta del quarto dito della mano e le falangi sono estremamente allungate”.

Scavando nei 500 metri di spessore roccioso della valle friulana, cinque o sei anni dopo, i paleontologi hanno rinvenuto altri rettili. Ma il vomito fossile non è più stato studiato nel dettaglio. L’occasione, racconta Dalla Vecchia, è arrivata mentre stava lavorando in Spagna e un suo studente ha ripreso a esaminarlo durante la tesi di laurea, sfruttando la micro-tomografia computerizzata. “Così abbiamo potuto osservare il ‘volto coperto’ del fossile, la parte interna che a occhio nudo non è possibile vedere, e siamo riusciti a distinguere la morfologia delle ossa”. Lo studio è stato pubblicato su PLoS ONE.

Non più un rettile volante, dunque, ma un lucertolone. “Esistono pochissimi esemplari al mondo di fossili di rigurgito di uno pterosauro, sono esempi di predazione molto rari visto che gli pterosauri sono considerati predatori, non prede. Questa rarità ha fatto fare al nostro fossile il giro del mondo, tra articoli scientifici e libri. Ora che sappiamo che si tratta di un’altra specie, un lucertolone tutto coda lungo circa mezzo metro, possiamo dire che è il primo fossile di rigurgito che contiene le ossa di questo tipo di rettile”, precisa Dalla Vecchia. Anche se, dal punto di vista paleontologico, a quanto pare “non è di moda come uno pterosauro!”. 

Non è possibile sapere con certezza chi abbia masticato e vomitato il lucertolone, ma dato l’habitat marino della valle è probabile si sia trattato di un grosso pesce. Poiché L. pandolfii non nuotava, una delle ipotesi è che sia arrivato in mare già morto e lì qualcuno si sia cibato della sua carcassa. Dopo il suo ritrovamento nel 1984, il fossile della valle friulana ha trovato spazio anche sull’enciclopedia degli pterosauri, negli anni ’90. “La scena è stata ricostruita raffigurando un enorme pesce, una creatura a metà strada tra una grossa aguglia e un barracuda, che balza fuori dall’acqua e afferra lo pterosauro”, racconta Dalla Vecchia. Ora andrebbe cambiata, sostituendo il rettile volante con la carcassa di un lucertolone, comodamente consumata in acqua da un antichissimo pesce.

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