Tra i tanti personaggi della letteratura che ho amato, ce n’è uno, non dotato di parola ma di carattere, è il cane Buck del Richiamo della foresta di Jack London (Bompiani, pagg.138, e 10, edizione tradotta e curata da Michele Mari), un libro che tutti hanno letto, che mi è capitato tra le mani in questi giorni, e che ho riletto con piacere e meraviglia, scoprendo che rileggere certi libri fa bene. Proprio quest’anno ricorre il centenario della morte di London, e mi sembra giusto ricordarlo attraverso il protagonista del suo libro, il cane Buck, col quale lui si era magicamente identificato fino a immaginarne i moti interiori dettati dall’istinto. Buck è figlio di un enorme San Bernardo e di una madre pastore scozzese, ma ha l’aspetto di un lupo, pesa centocinquanta libbre, ha un comportamento regale, e nella fattoria di proprietà del giudice Miller, situata nella soleggiata valle di Santa Clara in California, è circondato dal rispetto universale. Quello era il suo regno ,lì lui era il re.

Jack London (1876-1916)Jack London (1876-1916)

Ma Buck non leggeva i giornali, e non sapeva che in quell’anno di fine Ottocento era iniziata la corsa all’oro, scoperto nelle selvagge solitudini dell’Alaska, e che a causa di ciò si era fatta più intensa la richiesta dei cani da slitta, unico mezzo di locomozione nelle gelate distese del Nord. Non sapeva che il prezzo di un cane come lui era diventato talmente alto da indurre il custode della fattoria del giudice Miller a tradire il suo padrone e a venderlo proditoriamente a certi loschi trafficanti. Con sua sorpresa gli fu messa intorno al collo una corda che si stringeva senza pietà, fino a strangolarlo, e portato via. Buck non era stato mai trattato in modo così vile, e nei suoi occhi lampeggiò «l’ira furibonda di un re sequestrato». Ma il peggio doveva ancora venire, e venne quando l’addestratore, l’uomo dal maglione rosso, cui fu affidato dopo il viaggio che da San Francisco lo aveva portato in una cassa su una nave diretta al Nord, gli fece conoscere brutalmente «la legge della mazza e della zanna». Buck in tutta la sua vita non era mai stato colpito da una mazza, il colpo che gli fu assestato dall’uomo col maglione rosso, quando aveva tentato di ribellarsi, fu terribile, «barcollava senza forze con il sangue che gli usciva dal naso, dalla bocca e dalle orecchie», e come se non bastasse un altro colpo, quello definitivo, gli fu assestato sul naso. Tutto il dolore sofferto fino a quel momento era niente in confronto. Quella mazza «era stata una rivelazione», per Buck, fu il suo ingresso nel regno della «legge primitiva», la legge del più forte, l’aveva capita e l’avrebbe anche applicata. «Tu hai capito qual è il tuo posto, e io so quale è il mio», aveva detto l’uomo con il maglione rosso.

Da quel momento comincia per Buck la nuova terribile vita del cane da slitta. Bardato, aggiogato, e insieme alla muta guidata dal cane Spitz, che da quel momento sarà il suo rivale, obbligato a tirare per miglia e miglia di neve ghiacciata, nel gelo e la solitudine di una regione inesplorata, il carico pesante della slitta, a tirarlo fino allo svenimento, sempre sotto la sferza impietosa degli uomini. Si accumulano le miglia percorse e si accumula la stanchezza, cambiano i padroni ma non cambia la condizione dei cani. Buck mai del tutto domo, impara intanto molte cose. Impara a difendersi dai continui attacchi degli altri cani e a divorare sveltamente il suo cibo per non farselo rubare, impara a difendersi dal gelo e a dormire scavando una buca nella neve per scaldarsi, e soprattutto impara a controllare ogni piccolo movimento di Spitz, il suo nemico mortale. Spitz è un cane forte e duro quanto Buck, è quello che comanda tutti gli altri cani della muta ed è lui che mantiene la disciplina, se un cane sgarra è lui che lo rimette in riga.

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Il richiamo di Jack Londona cento anni dalla morte

Tutto questo è insopportabile per Buck perché lui vuol essere il primo, è lui che vuole comandare ed essere il capo della muta. È perciò inevitabile che esploda il conflitto. La loro rivalità finirà con la morte dell’uno o dell’altro perché questa è la legge primitiva. E infatti lo scontro avviene ed è terribile e sanguinoso, ma Buck prevale perché nella furia cieca della lotta lui è il più intelligente e riesce a mantenere un margine di controllo. Ora è lui il capo della muta, è lui che la guida, ma la sua condizione non cambia, dovrà sempre tirare la slitta con tutte le sue forze, dovrà sempre ricevere colpi di mazza e di frusta, fino al momento in cui, stremato e svenuto dalla fatica, sta per essere ucciso dai colpi di mazza di un energumeno. Ed è in quel momento che interviene a salvarlo un uomo più pietoso degli altri, John Thornton.

La copertina della nuova edizione Bompiani de «Il richiamo della foresta»La copertina della nuova edizione Bompiani de «Il richiamo della foresta»

Da quel momento scoppia l’amore di Buck per il suo salvatore, un amore e una devozione totale, la belva che è in lui dimostra in tutti i modi la sua gratitudine, più volte salva Thornton da situazioni pericolose, e gli fa perfino vincere una scommessa che lo rende ricco. La scommessa è se Buck riuscirà a spostare una slitta con un carico di mille libre, cosa quasi impensabile. E Buck capisce la situazione, tira fino allo spasimo, la slitta si muove, la scommessa è vinta. Ora John Thornton può partire verso l’Est in cerca di una favolosa miniera perduta, ai margini di una foresta primordiale. Ed è lì che Buck comincia a sentire il richiamo della foresta. Nella foresta c’erano le ombre di ogni tipo di cane, mezzi lupi e lupi selvaggi, incalzanti, anelanti, «queste ombre lo chiamavano così perentoriamente che ogni giorno l’umanità e le sue pretese scivolavano un po’ più lontano da lui».

Buck si addentra nella foresta primordiale, incontra altri lupi, insegue con ferina ostinazione e uccide un grosso alce, e lì scopre la sua vera natura lupesca, e insieme un senso di libertà sconfinata e di paura. Lì entra in un altro mondo che gli trasmette «una grande inquietudine e strani desideri». Quando dopo aver vagato per giorni nella foresta ritorna all’accampamento scopre che John Thornton e tutti i suoi compagni sono trafitti dalle frecce degli Yeehats, una tribù indigena, e troppo tardi scaglia contro di loro il suo furore. E qui finisce la sua avventura. Dopo la sua allucinante odissea di cane da slitta, e dopo il suo abbandono all’amore per Thornton, a Buck non resta che rispondere al richiamo dei suoi fratelli selvaggi, addentrandosi definitivamente nella foresta primordiale dove vivrà da lupo con gli altri lupi.

Ecco, non ho fatto che riassumere i momenti di un grande libro «antisentimentale e commovente» per spiegare perché tra i personaggi della letteratura, il cane Buck è quello che ho tanto amato, per la sua fierezza e la sua sopportazione, ma anche per la sua capacità di amore e di riconoscenza.

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