Conosco un uomo, sposato e padre di due figli, che tanti anni fa comprò un motel con ventun stanze nei pressi di Denver per diventarne il guardone in pianta stabile. Con l’aiuto della moglie, ricavò delle aperture rettangolari di quindici per trentacinque centimetri nel soffitto di una dozzina e passa di stanze. Coprì poi i buchi con dei pannelli di alluminio a persiana che parevano griglie di ventilazione, ma erano in realtà griglie d’osservazione e gli consentivano, inginocchiandosi nella soffitta, di spiare i clienti nelle camere sottostanti. Li osservò per decenni, documentando minuziosamente per iscritto ciò che vedeva e sentiva. Non una sola volta, in tutti quegli anni, si fece scoprire. Venni a sapere dell’esistenza di quest’uomo ricevendo via espresso al mio indirizzo di casa newyorkese una lettera scritta a mano e priva di firma datata 7 gennaio 1980. Esordiva così:

Gentile signor Talese, è da quando ho saputo dell’atteso studio sul sesso da una costa all’altra degli Stati Uniti presente nel suo libro di prossima pubblicazione, La donna d’altri, che ritengo di avere importanti informazioni con cui potrei contribuire al suo contenuto, o al contenuto di un libro futuro. Descriveva poi il motel di cui da più di dieci anni era proprietario.

Il motivo per cui ho acquistato questo motel è stato quello di soddisfare le mie tendenze voyeuristiche e il mio fervido interesse per il modo in cui le persone conducono la vita in tutti i suoi aspetti, sul piano sociale come su quello sessuale… l’ho fatto esclusivamente in ragione della mia sconfinata curiosità per le persone, e non da semplice guardone depravato.

Spiegava di aver «preso meticolosamente appunti sulla maggior parte degli individui osservati» e compilato interessanti statistiche relative a ciascuno, per esempio su ciò che faceva o diceva, sulle caratteristiche individuali, l’età e la corporatura; la zona di provenienza; e infine il comportamento sessuale. Erano individui di estrazione molto varia. L’uomo d’affari che porta la segretaria in un motel tra mezzogiorno e l’una (nel nostro settore la definiamo clientela da «lenzuola calde»). Coppie sposate che viaggiano da uno Stato all’altro, per lavoro o vacanza. Coppie che non sono sposate ma convivono. Mogli che tradiscono i mariti e viceversa. Lesbismo, che ho studiato con particolare attenzione… Omosessualità, a cui ero poco interessato ma che ho osservato ugualmente per determinarne motivazioni e procedure. Gli anni Settanta, verso la fine, hanno introdotto un’altra deviazione sessuale, nello specifico il sesso di gruppo, che ho osservato con grande interesse… Ho visto mettere in atto la maggior parte delle emozioni umane, in tutta la loro ironia e tragicità. Sul fronte sessuale, nel corso degli ultimi quindici anni ho visto, osservato e studiato il rapporto a due più immediato, spontaneo e meno asettico che esista, oltre a buona parte delle deviazioni erotiche immaginabili. Il motivo principale per cui voglio fornirle queste informazioni riservate è che sono convinto possano risultare utili alle persone in generale, e agli studiosi di sessualità in particolare. Diceva poi che, pur nutrendo il desiderio di raccontare la sua storia, non aveva «abbastanza talento» come scrittore, e temeva invece «di essere scoperto». Infine mi invitava a corrispondere con lui tramite fermo posta, accennando alla possibilità che mi recassi in Colorado per visitare il suo motel:
Al momento non posso rivelarle la mia identità per proteggere i miei affari, ma lo farò quando potrà garantirmi che tale informazione sarà mantenuta sotto il più stretto riserbo.

Finito di leggere misi la lettera da parte per qualche giorno, incerto se rispondere o meno. Come scrittore di saggistica che si ostina a usare negli articoli e nei libri i nomi reali, sapevo di non poter accettare la condizione dell’anonimato. E mi turbava profondamente il modo in cui quell’uomo aveva violato la fiducia dei suoi clienti e invaso la loro privacy. Poteva un individuo del genere costituire una fonte affidabile? Rileggendo la lettera, tuttavia, mi resi conto che i metodi e le motivazioni della sua «ricerca» presentavano alcune somiglianze con quelli da me utilizzati per La donna d’altri. Io stesso, per esempio, avevo preso appunti mentre gestivo centri massaggi a New York e frequentavo scambisti nella comune nudista di Sandstone, nel sud della California (con una differenza fondamentale: le persone che io avevo osservato e descritto mi avevano dato il loro consenso). Inoltre, la frase che apriva il mio libro sul New York Times del 1969, The Kingdom and the Power, era: «I giornalisti sono perlopiù guardoni irrequieti che osservano le verruche del mondo, le imperfezioni della gente e dei luoghi».

Se il mio corrispondente dal Colorado fosse, per usare le sue parole, «un guardone depravato» – una qualche versione del Norman Bates di Hitchcock, o del regista assassino dell’Occhio che uccide di Michael Powell – o invece un innocuo benché bizzarro individuo dalla «curiosità sconfinata», o perfino un semplice millantatore, avrei potuto scoprirlo solo accettando il suo invito. Poiché avevo in programma di recarmi a Phoenix verso la fine del mese, decisi di spedirgli un biglietto, con il mio numero di telefono, proponendogli di incontrarci durante una tappa a Denver. Di lì a qualche giorno mi lasciò un messaggio sulla segreteria telefonica, dicendo che mi sarebbe venuto a prendere al ritiro bagagli dell’aeroporto. Due settimane dopo, avvicinandomi al nastro scorrevole, vidi un uomo che mi tendeva la mano sorridendo. «Benvenuto a Denver», disse, agitando nella mano sinistra il biglietto che gli avevo spedito. «Mi chiamo Gerald Foos».

La mia prima impressione fu che quell’affabile sconosciuto assomigliasse a molti degli uomini che avevano volato con me da Phoenix. Non sembrava avere nulla di singolare. Foos aveva tra i quaranta e i cinquant’anni e gli occhi nocciola, era alto circa un metro e ottanta e leggermente sovrappeso. Indossava una giacca beige e una camicia col colletto aperto che pareva più piccola di una taglia per il suo collo assai muscoloso. I capelli erano scuri e tagliati con cura, e da dietro la montatura di corno degli occhiali emanava un’espressione cordiale da albergatore. Scambiati alcuni convenevoli, accettai il suo invito a soggiornare nel motel per qualche giorno. «La metteremo in una delle stanze che non ho modo di osservare», disse con un sorriso disteso. Aggiunse poi che più tardi mi avrebbe portato nella piattaforma d’osservazione in soffitta, ma solo dopo che la suocera Viola, che dava una mano nell’ufficio del motel, fosse andata a letto. «Io e Donna, mia moglie, abbiamo evitato con cura di metterla al corrente del nostro segreto, e lo stesso vale ovviamente per i nostri figli», disse. Tirò fuori di tasca un foglio di carta da lettere ripiegato e me lo diede. «Spero non le dispiaccia leggerlo e firmarlo», disse. «Mi permetterà di essere completamente sincero con lei, e farle visitare il motel non sarà un problema». Era un documento dattiloscritto in cui dichiaravo che non avrei mai pubblicato il suo nome, né citato il motel in relazione alle informazioni che mi avrebbe fornito, fino a quando non mi avesse concesso una liberatoria. Firmai il foglio. Avevo già deciso che di Gerald Foos, a quelle condizioni, non avrei scritto. Ero venuto a Denver solo per incontrarlo e soddisfare la mia curiosità al suo riguardo.

In macchina, mentre mi portava al motel, Foos ne approfittò per raccontarmi a grandi linee la storia della sua vita. Mi spiegò di aver conosciuto Donna durante le superiori a Ault, un paesino di agricoltori a un centinaio di chilometri da Denver, e che si erano sposati nel 1960. I genitori di lui, due gran lavoratori americani d’origine tedesca, avevano posseduto una fattoria. Li descrisse come persone di buon cuore che per lui avrebbero fatto qualsiasi cosa, «tranne parlare di sesso». Ogni mattina, mi raccontò, la madre si vestiva chiusa nella sua stanza, e Foos non aveva mai visto i genitori mostrare il minimo interesse per il sesso. «Ragion per cui», disse, «nutrendo una grande curiosità per il sesso fin dalla prima adolescenza – con tutti quegli animali intorno, com’era possibile non pensare al sesso? – rivolsi lo sguardo fuori di casa, per scoprire ciò che potevo sulla vita privata degli altri». Non si era dovuto spingere lontano, disse, mentre attraversavamo la periferia di Aurora, dove si trovava il suo motel. Quand’era bambino, nella fattoria accanto viveva la sorella sposata della madre, Katheryn. Aveva cominciato a spiarla, mi disse, all’età di nove anni. Zia Katheryn andava allora per i trenta. Spesso, di notte, girava nuda in camera da letto lasciando le persiane aperte, e ogni sera lui la sbirciava da sotto il davanzale – «come una falena attratta dalla luce» – per un’oretta. L’aveva spiata per cinque o sei anni di fila senza mai farsi scoprire. Alla zia Katheryn piaceva sedere davanti alla toeletta senza nulla indosso, sistemando le sue bamboline di porcellana o la sua collezione di «ditali preziosi». «A volte c’era anche il marito, lo zio Charlie, che di solito dormiva come un sasso», disse Foos. «Beveva molto. Una volta li vidi fare sesso e rimasi turbato. Ero geloso. Lei, per me, era mia».

Ascoltai senza commentare, pur essendo colpito dalla schiettezza di Foos. Lo conoscevo da appena mezz’ora, ed ecco che mi confidava le sue ossessioni masturbatorie nonché l’origine del suo voyeurismo. Come giornalista, non ricordo di aver mai incontrato nessuno che avesse bisogno di me meno di lui. Era l’unico a parlare, mentre io sedevo e ascoltavo. La macchina era il suo confessionale. Mi raccontò di essere rimasto vergine fino alla fine delle superiori. Solo dopo essere entrato nella Marina militare, prestando servizio nel Mediterraneo e in Estremo Oriente e formandosi come specialista in demolizioni sottomarine, aveva ampliato la sua conoscenza del sesso sotto la guida delle ragazze incontrate nei bar. Ma continuando anche a fantasticare sulla zia Katheryn. Congedatosi dalla Marina, aveva cominciato a frequentare – e presto sposato – Donna, che faceva l’infermiera in un ospedale di Aurora. Foos aveva trovato lavoro come revisore dei conti per la Conoco. Era un lavoro infelice, che lo teneva chiuso in uno stanzino per tutto il giorno, ad annotare i livelli delle cisterne di petrolio. Per sfuggire al tedio, mi disse, aveva cominciato a effettuare quelle che definì «escursioni voyeuristiche» in giro per Aurora al calar della sera. Sovente a piedi, anche se a volte in macchina, vagava per i quartieri spiando le persone che non si preoccupavano di chiudere le persiane. Con Donna non faceva mistero del suo voyeurismo. «Prima ancora che ci sposassimo, le dissi che mi dava una sensazione di potere», raccontò. Lei sembrava capire. «Donna, come la maggior parte delle infermiere, era di vedute molto aperte», disse. «Hanno visto di tutto – morte, malattie, dolore, disturbi di ogni tipo – e sconvolgere un’infermiera è molto difficile». A volte lei lo accompagnava perfino nelle sue escursioni voyeuristiche, ed era stata proprio Donna, mi disse, a suggerirgli di prendere appunti su quello che vedeva.

«Ci stiamo avvicinando al motel», disse Foos procedendo in East Colfax Avenue lungo un quartiere di negozi, un parcheggio per roulotte, alcuni fast food e una carrozzeria. Disse di aver scelto l’edificio del motel Manor House come sede del suo laboratorio anni prima perché aveva il tetto spiovente – e abbastanza alto da consentirgli di percorrere la soffitta in posizione eretta – che gli avrebbe permesso di realizzare il suo sogno: creare una piattaforma d’osservazione da cui sbirciare nelle camere sottostanti. Aveva acquistato la proprietà per centoquarantacinquemila dollari. «Donna non era contenta di lasciare casa nostra per andare a vivere nell’alloggio per i gestori del motel», disse Foos. «Ma io le promisi che avremmo comprato un’altra casa non appena avessimo potuto permettercela». Foos si fermò nel parcheggio del motel Manor House, un edificio in mattoni pitturato di verde e di bianco, con una porta arancione per ciascuna delle ventun stanze destinate ai clienti. Parcheggiò accanto a uno stabile adiacente che ospitava un ufficio e gli alloggi della famiglia. La moglie, un donnino biondo con gli occhi azzurri e in abiti da infermiera, ci accolse nell’ufficio. Stava per andare all’ospedale, dove la aspettava un turno di notte. Mentre ci dirigevamo verso la mia stanza, Foos mi disse che il figlio frequentava il primo anno di ingegneria alla Colorado School of Mines e che la figlia, nata con un disturbo respiratorio, aveva dovuto abbandonare gli studi superiori per farsi curare in un’apposita clinica, nella quale risiedeva. Aprì la porta della mia stanza, accese il condizionatore e posò il mio bagaglio, quindi disse che sarebbe venuto a prendermi di lì a un’ora per uscire a cena. «Dopo, tornando, possiamo fare un giretto in soffitta», disse.

Disfatte le valigie, cominciai ad annotare le mie impressioni su Gerald Foos. L’interesse che nutrivo per lui non dipendeva dall’accesso alla sua soffitta. Speravo mi permettesse di leggere le centinaia di pagine che sosteneva di aver scritto negli ultimi quindici anni, e che in seguito mi desse il permesso di scrivere di lui. Sapevo che si considerava uno studioso della sessualità nel solco di Alfred Kinsey, e immaginavo che i suoi resoconti vertessero su ciò che lo eccitava sessualmente, ma era possibile che annotasse anche cose che esulavano dai suoi desideri. Il guardone è mosso dall’aspettativa; investe infinite ore nella speranza di vedere ciò che desidera. Tuttavia, per ogni episodio erotico cui assiste, è altresì esposto a centinaia di momenti banali che rappresentano l’ordinaria routine quotidiana degli esseri umani: gente che vagava fra i canali della televisione, russava, urinava, si agghindava e faceva altre cose troppo noiose per un reality televisivo. Mi incuriosiva l’idea che il guardone, nel corso delle sue invasioni, fungesse inavvertitamente da storico sociale. Avevo da poco letto un libro intitolato Gli altri vittoriani, del critico letterario Steven Marcus. Uno dei personaggi principali è un inglese di buona famiglia del diciannovesimo secolo che compensava la sua educazione vittoriana intrattenendo esperienze sessuali, talvolta voyeuristiche, con un gran numero di donne: serve, prostitute, mogli d’altri, perfino una marchesa. Sulle sue liaison e le sue avventure scrisse un voluminoso memoriale che intitolò La mia vita segreta. Riuscì a farlo pubblicare, privatamente e in forma anonima, nel continente europeo, e ottenne una crescente notorietà grazie alle edizioni pirata che circolavano nel sottosuolo letterario. Nel 1966 fu pubblicata per la prima volta un’edizione americana del libro, per i tipi della Grove Press. Marcus lo considera una miniera di informazioni sulla storia sociale del periodo. «Oltre a presentare i suddetti fatti», scrive Marcus, «La mia vita segreta ci mostra come nelle pieghe e nei sotterranei dell’Inghilterra vittoriana che conosciamo… si conducesse un’autentica vita sociale segreta, la vita segreta della sessualità». Come scrive l’anonimo autore nel suo memoriale, «L’uomo non può mai saziarsi di osservare la natura umana». Speravo che il manoscritto di Foos, qualora mi avesse dato il permesso di leggerlo, divenisse una sorta di seguito della Mia vita segreta.

Foos mi portò in un ristorante chiamato Black Angus Steakhouse. Ordinati un margarita e un controfiletto, promise che mi avrebbe spedito una fotocopia del suo manoscritto. Disse che l’avrebbe spedita a puntate, poiché già sapeva che avrebbe dovuto fotocopiarla presso la biblioteca civica, poche pagine alla volta, per mantenere la discrezione. Gli chiesi se si fosse mai sentito in colpa per il fatto di spiare i suoi clienti. Pur ammettendo il suo costante timore di essere scoperto, Foos non era disposto a riconoscere che le sue attività in soffitta potessero nuocere a qualcuno. Disse che soddisfaceva le sue curiosità entro i limiti della sua proprietà e che i clienti, in quanto inconsapevoli del suo voyeurismo, non ne venivano toccati. «Non c’è invasione della privacy», ragionava, «se nessuno si lamenta». Ciò nonostante si sforzava in ogni modo di non essere scoperto e temeva, qualora fosse successo, di essere riconosciuto colpevole di un reato.

Durante la cena mi spiegò che gli erano occorsi mesi per portare le griglie d’osservazione del suo motel a un livello di «infallibile perfezione». Inizialmente aveva pensato di installare nei soffitti degli specchi di sorveglianza, ma poi gli era parsa un’idea troppo compromettente nel caso fosse stato scoperto. Aveva allora pensato di montare le finte griglie di ventilazione e chiesto a un fabbricante di lamiere di costruirgli svariati pannelli a persiana di quindici centimetri per trentacinque. Soltanto Donna, che era al corrente del progetto, aveva potuto aiutare Foos a montarli. Stanza dopo stanza, era salita su una sedia e allungando le braccia aveva inserito un pannello dentro l’apertura praticata da Foos nel soffitto con una sega elettrica. Lui, steso sulla pancia in soffitta, aveva fissato il pannello al pavimento di compensato e alle travi con delle lunghe viti a testa piatta. Aveva posato tre strati di spessa moquette in una striscia di pavimento al centro della soffitta; i chiodi che tenevano ferma la moquette erano rivestiti di gomma per attutire il cigolio dei passi. Una volta collocati i pannelli, Foos aveva chiesto a Donna di entrare in ogni stanza, stendersi sul letto e guardare la griglia di ventilazione mentre lui la osservava dall’alto. «Mi vedi?» le chiedeva. Se la risposta era sì, lui prendeva le pinze e piegava i listelli del pannello a un’angolazione che ne nascondesse la presenza, pur mantenendo una visuale chiara del letto e della porta del bagno. «Procedendo così, per tentativi, ci sono volute settimane», proseguì Foos. «Ed è stato sfiancante, per me che facevo in continuazione su e giù fra la soffitta e le stanze, con le mani indolenzite da tutto quel trafficare con le pinze».

Foos disse di aver cominciato a spiare i clienti nell’inverno del 1966. Spesso ciò che vedeva lo eccitava e lo gratificava, ma in molti casi l’attività sotto era così noiosa che si appisolava, dormendo sulla moquette anche per ore, fino a quando Donna non lo svegliava prima di uscire per andare in ospedale. Qualche volta gli portava uno spuntino («Sono l’unico che in questo motel ha il servizio in camera», mi disse sorridendo); altre volte, se nella stanza di sotto era in corso un interludio erotico particolarmente interessante, Donna si stendeva accanto a lui e guardava. Ogni tanto facevano sesso nella piattaforma d’osservazione. «Donna non era una voyeur», mi disse, «quanto piuttosto la moglie devota di un voyeur. E diversamente da me era cresciuta con un atteggiamento libero e sano nei confronti del sesso». Proseguì: «Per noi la soffitta era un’estensione della camera da letto». Quando Donna non era con lui nella piattaforma d’osservazione, mi disse, si masturbava, oppure memorizzava ciò che vedeva per poi ricrearlo con la moglie. Foos continuò a parlare anche in macchina mentre tornavamo al Manor House. Buttò lì che da qualche giorno la stanza numero 6 era occupata da una giovane coppia attraente e mi propose di dare un’occhiata quella sera stessa. I due erano di Chicago, venuti in Colorado per sciare. Agli ospiti più giovani e attraenti Donna assegnava sempre una delle «stanze da osservazione». Le nove che non erano tali andavano alle famiglie, ai singoli e alle coppie anziane o fisicamente meno interessanti.

Avvicinandoci al motel cominciai a sentirmi a disagio. Notai che l’insegna al neon «Al completo» era accesa. «Per noi è un bene», disse Foos. «Vuol dire che di notte possiamo chiudere senza essere disturbati da chi si presenta tardi per chiedere una stanza». Se i clienti avevano bisogno di qualcosa, un cicalino avvertiva i proprietari nella reception, e addirittura in soffitta, e se Foos si trovava lassù poteva scendere da una scala nel locale di servizio e raggiungere la reception in meno di tre minuti. Entrati nell’ufficio, la madre di Donna consegnò a Foos la posta e lo aggiornò sui turni delle donne delle pulizie. Attesi su un divano, sotto alcuni poster incorniciati delle Montagne Rocciose e a un paio di targhe con tre stelle a certificare la pulizia del motel Manor House. Infine, dopo aver dato la buonanotte alla suocera, Foos mi fece cenno di seguirlo nel parcheggio per raggiungere il locale di servizio. Le finestre delle stanze dei clienti avevano tutte le tende tirate. Da alcune sentivo venire i suoni del televisore, il che immaginai non promettesse bene per le aspettative del mio ospite. Fissata a una parete del locale di servizio c’era una scala in legno dipinta di blu. Feci sì con la testa a Foos che mi aveva invitato al silenzio posandosi un dito sulle labbra, quindi lo seguii su per la scala. Raggiunto un pianerottolo lui aprì una porta che conduceva in soffitta. Quando ebbe richiuso a chiave dall’interno, vidi nella penombra, alla mia sinistra e alla mia destra, le travi di legno inclinate su cui si reggeva il tetto spiovente del motel; in mezzo allo stretto pavimento c’era una passerella di moquette larga circa un metro che correva sopra i soffitti delle ventun stanze destinate ai clienti.

Mi accovacciai sulla passerella alle spalle di Foos, per evitare di sbattere la testa contro una trave, e lo vidi indicare in basso, verso una feritoia nel pavimento. Qualche passo più in là si intravedeva una luce. Usciva luce anche da altre feritoie più lontane, ma da quelle sentivo venire il suono dei televisori. La stanza sotto di noi era silenziosa, eccezion fatta per un mormorio di voci sommesse e per il vibrato delle molle del materasso. Vidi ciò che faceva Foos e lo imitai: inginocchiatomi, avanzai carponi verso i listelli illuminati. Poi allungai il collo per vedere il più possibile attraverso la griglia, e così facendo quasi picchiai la testa contro quella di Foos. Infine, vidi un uomo e una donna nudi stesi sul letto sottostante, intenti a praticare sesso orale. Io e Foos li osservammo per alcuni istanti, dopodiché lui alzò la testa e levò il pollice in segno di vittoria. Mi sussurrò che era la coppia venuta a sciare da Chicago. Benché nella mia testa una voce insistente mi dicesse di guardare altrove, continuai a osservare, sporgendomi un po’ più verso il basso per vedere meglio. Nel farlo non mi accorsi che la cravatta mi era scivolata attraverso i listelli del pannello, e adesso penzolava nella stanza del motel a pochi metri dalla testa della donna. Mi accorsi della mia sbadataggine solo quando Foos mi prese per il collo e con la mano libera sfilò la mia cravatta dalla fessura. La coppia di sotto non aveva visto nulla: la donna ci dava la schiena, e l’uomo aveva gli occhi chiusi. L’espressione di Foos, mentre mi fissava in silenzio, conteneva una notevole irritazione. Provai imbarazzo. E se la mia cravatta avesse tradito il suo nascondiglio? Il pensiero successivo fu: perché mi preoccupavo di proteggere Gerald Foos? E tra parentesi che cosa ci facevo lassù? Ero diventato complice del suo strano e sgradevole progetto? Scesi dietro di lui per la scala e uscimmo nel parcheggio. «Deve togliersi quella cravatta», disse infine riaccompagnandomi alla mia stanza. Annuii e gli augurai la buonanotte. Quando l’indomani mattina lo incontrai nell’ufficio, in lui non c’era traccia di irritazione, né commentò il fatto che non indossassi la cravatta. «Ora che abbiamo un po’ di privacy», mi disse, «vorrei farle dare un rapido sguardo al mio manoscritto». Aprì con la chiave un cassetto della scrivania ed estrasse una scatola di cartone contenente una risma spessa di fogli scritti a mano, il lavoro di quindici anni. La calligrafia era eccellente. Era il manoscritto che lui chiamava Il diario del voyeur. Mi spiegò che in soffitta teneva una scorta di block notes, delle matite e una torcia. «Se vedo o sento qualcosa che mi interessa prendo un appunto e poi, quando sono qui da solo, lo integro». Sembrava disperatamente ansioso di condividere le sue scoperte. Mi chiesi se, confidandosi con altre persone, i guardoni non bramassero una fuga dalla prolungata solitudine. Scrive Steven Marcus a proposito dell’avventuriero protagonista del suo libro: «Se avesse davvero voluto mantenere tale la sua vita segreta, non avrebbe preso carta e penna… Si domanda se tutti gli uomini sentano e facciano le cose che fa lui, e conclude: “Io non lo potrò mai sapere; la mia esperienza, una volta stampata, potrebbe permettere ad altri di fare paragoni che a me sono preclusi”». Una settimana dopo il mio ritorno a New York ricevetti per posta diciannove pagine del Diario del Voyeur, datate 1966. La prima annotazione esordisce:

Oggi si compie e si avvera un sogno che ha occupato senza sosta la mia mente e la mia persona. Oggi ho acquistato il motel Manor House, e quel sogno è stato coronato. Finalmente sarò in grado di soddisfare il mio costante desiderio e l’incontenibile brama di sbirciare nella vita delle persone. D’ora in avanti le mie pulsioni voyeuristiche verrano messe in pratica a un livello più alto di quello che chiunque abbia mai contemplato.

Descriveva la meticolosa impresa di trasformare la sua soffitta in una piattaforma d’osservazione: 18 novembre 1966 – Gli affari vanno così bene che non mi riesce di osservare diversi ospiti interessanti, ma pazienza è sempre stata la mia parola d’ordine, e devo realizzare questo compito con perfezione e ingegno assoluti.

Gli appunti assumono un tono sempre più grandioso a mano a mano che la realizzazione dell’obbiettivo si avvicina. «Gli imbecilli che lavorano in questo negozio di lamiere hanno la testa di coccio», scrive. «“Questa griglia non funzionerà mai bene”, mi dicono. Se gli spiegassi a che cosa serve, probabilmente non capirebbero». Non avessi visto quella piattaforma d’osservazione in soffitta con i miei occhi, io stesso avrei stentato a credere ai racconti di Foos. Per la verità, nei decenni trascorsi da quando ci conoscemmo, nel 1980, ho notato nella sua storia varie incongruenze: le prime annotazioni del Diario del voyeur, per esempio, sono datate 1966, ma l’atto di vendita del Manor House, che ho di recente ottenuto dall’archivio della contea di Arapahoe, dimostra che l’acquisto è avvenuto nel 1969. E ci sono altre date, nei suoi appunti e nei diari, che non quadrano. Non dubito che Foos sia stato un guardone di epica portata, ma come narratore era a volte impreciso e inaffidabile. Non posso garantire per ogni dettaglio che riporta nel suo manoscritto. A volte riesco quasi a immaginarmelo, Foos, mentre si sfrega le mani come lo scienziato pazzo di un film di serie B: «Disporrò del miglior laboratorio al mondo per l’osservazione degli esseri umani nella loro condizione naturale, cominciando quindi a stabilire autonomamente, e con esattezza, cosa succede dietro le porte chiuse delle camere da letto», scriveva.

In un’annotazione datata 24 novembre 1966, Foos racconta di aver usato la piattaforma di osservazione per la prima volta: Soggetto n. 1: il signore e la signora W, del Colorado meridionale. Descrizione: maschio di circa 35 anni, a Denver per lavoro. 1 metro e 88, 80 chili, impiegato, probabile istruzione universitaria. Moglie di 35 anni, 1 metro e 62, 60 chili, paffuta ma graziosa, capelli scuri, origini italiane, istruita, 93—71—93.

Attività: alle 19 ho assegnato alla coppia la stanza n. 10. Mentre lui si registrava, ho notato che era un uomo di classe, e quindi un soggetto perfetto per avere l’onore di essere il n. 1. Ultimata la registrazione mi sono immediatamente spostato nel corridoio d’osservazione. È stato straordinario vedere i miei primi soggetti, in quella che è l’osservazione inaugurale, entrare nella stanza. Si sono presentati alla mia vista con più chiarezza del previsto… Ho provato una straordinaria sensazione di potere ed euforia per il risultato ottenuto. Ero riuscito a compiere ciò che altri avevano solo sognato, e il mio cervello era invaso dal pensiero della mia superiorità e intelligenza… Scrutando oltre il pannello dalla mia piattaforma d’osservazione riuscivo a vedere l’intera stanza, e con mio sommo piacere era visibile anche il bagno, con il lavandino, la toilette e la vasca… Vedevo i soggetti sotto di me, ed erano senza dubbio una coppia perfetta per inaugurare quel palcoscenico appositamente creato per loro, e per molti altri a venire, e del quale il pubblico sarei stato io. La donna è andata in bagno chiudendo la porta, poi si è seduta davanti allo specchio e guardandosi i capelli si è detta che stavano imbiancando. Lui era in vena polemica e pareva non gradire il suo impegno di lavoro a Denver. La serata è trascorsa senza eventi di rilievo fino alle 20.30, quando finalmente lei si è svestita rivelando un gran bel corpo, morbido ma sessualmente attraente. Si è stesa sul letto al suo fianco, ma lui non sembrava interessato, e ha cominciato a fumare una sigaretta via l’altra guardando la TV… Infine, dopo averla baciata e accarezzata, ha rapidamente raggiunto l’erezione e l’ha penetrata nella classica posizione con il maschio sopra, e senza preliminari o quasi; l’orgasmo è giunto dopo circa 5 minuti. Lei, che all’orgasmo non era arrivata, è andata in bagno…

Conclusione: non è una coppia felice. Lui è troppo assorbito dal lavoro e non ha tempo per lei. È assai ignorante in fatto di procedure sessuali e preliminari, malgrado l’istruzione universitaria. Per il mio laboratorio d’osservazione è stato un esordio assai mediocre

Sono certo che in futuro andrà meglio.

Non gli andò meglio con la seconda coppia osservata. Lui e lei avevano superato i trent’anni e parlarono di soldi, bevendo bourbon e andando a letto con le coperte tirate «fin sotto il naso». La terza coppia, due persone sui cinquant’anni dall’aria benestante, era più interessante. Si trovavano in città per trascorrere il giorno del Ringraziamento con il figlio e la nuora, che non avevano mai incontrato e non avevano in simpatia. Foos scrive di averli osservati mentre parlavano del matrimonio del figlio. Notò che la moglie si slacciava il reggiseno facendo scivolare la chiusura sul davanti. Si è tolta le scarpe e ha spruzzato all’interno una sorta di deodorante… Una volta fatto il bagno, ha passato un’ora a sistemarsi i capelli con i bigodini e facendosi bella davanti allo specchio. E ha 50 anni! Immagino le ore che avrà sprecato in vita sua. Il marito nel frattempo si era addormentato, e durante la notte non si sono verificati atti sessuali… Alle 9 dell’indomani mattina ho osservato la donna praticare sesso orale sull’uomo fino a conclusione.

Dopo altri due giorni di osservazione Foos riassume: «Conclusione: anziana coppia istruita e di classe medio-alta con una straordinaria vita sessuale». Tra il giorno del Ringraziamento e il gennaio del suo primo anno da guardone del motel, Gerald Foos trascorse in soffitta un tempo sufficiente a fargli osservare 46 atti sessuali compiuti dai clienti, ora da soli, ora con un partner, e in un’occasione con due. Ogni volta condensava le sue osservazioni in una conclusione formale.

Un giorno di dicembre arrivarono due uomini ben vestiti con una donna chiedendo una stanza singola. Il più loquace dei due, che aveva i capelli rossi, spiegò che gli si era rotta la caldaia, e che la moglie stava congelando. Più tardi Foos si accorse che firmando il registro aveva indicato come indirizzo di casa quello di un negozio di aspirapolveri della zona. Nel giro di qualche minuto Foos si piazzava in soffitta sopra la loro stanza. Erano una «coppia molto educata, molto organizzata», scrive, «con un compagno maschio». Si svestirono subito tutti e tre. Poi il marito scattò delle fotografie alla moglie e all’altro mentre facevano sesso in varie posizioni. Foos riferisce l’incontro nei minimi dettagli. Scrive che una volta conclusosi «sono rimasti tutti e tre sul letto, tranquilli e rilassati, chiacchierando di aspirapolveri da vendere». (Foos aveva anche scoperto che il terzo lavorava come rappresentante per la ditta della coppia.) Quel ménage à trois fu il primo rapporto sessuale di gruppo al quale Foos assistette presso il Manor House. Di lì a qualche anno, tuttavia, smise di considerare i partner in più come una deviazione; trovava invece che ponessero un dilemma economico. Ai gruppi di tre o quattro doveva chiedere più soldi che alle coppie? Attualmente la maggiorazione interessava solo i clienti che si presentavano con animali al seguito; a loro veniva chiesta una cauzione di quindici dollari, rimborsabile. Foos amava spiare i clienti con animali, ma per motivi diversi da quelli per cui spiava le coppie. Quando un uomo e una donna di Atlanta si presentarono con un grosso segugio di nome Roger al guinzaglio, Foos andò dritto in soffitta. Lo indignò constatare che la coppia litigava per i soldi, la moglie lamentandosi di dover «stare in questa topaia». Foos si infuriò: il motel, scrisse, «non è di prima categoria ma è pulito, e ha una clientela molto variegata». Guardò con orrore il cane fare «i suoi bisogni, una montagna, dietro la poltrona». I proprietari di Roger pulirono, nella speranza che la poltrona nascondesse la macchia sulla moquette.

Il mattino dopo, quando la coppia gli chiese indietro i quindici dollari di cauzione, Foos li sbalordì accompagnandoli nella stanza, spostando la poltrona e indicando loro la macchia. (Non dovette passargli per la mente che in quel modo avrebbe potuto tradirsi). Inoltre i cani, mi disse, a differenza delle persone sembravano spesso accorgersi che lassù c’era qualcuno. Quando Foos si trovava in soffitta, i cani sovente alzavano il muso verso il pannello e abbaiavano. Prima che la coppia se ne andasse, Foos tornò nella piattaforma per origliare. La donna disse al marito: «È solo un albergatore imbecille che le cauzioni se le terrà tutte per sé, e ha avuto la botta di fortuna di indicare un certo punto della moquette». Ecco la cupa conclusione filosofica di Foos:

Dalle mie osservazioni emerge che la maggior parte delle persone in vacanza trascorre il tempo nell’infelicità. Litigano per i soldi, per i posti da visitare… Tutta la loro aggressività aumenta per qualche ragione a oltranza, ed è allora che scoprono di non essere fatti l’uno per l’altra. Le donne, in particolare, faticano ad adattarsi sia alla novità del luogo sia al marito. Le vacanze fanno sì che tutte le ansie del genere umano si manifestino in quel preciso istante, fomentando le peggiori emozioni… Quando queste persone appaiono in pubblico, è impossibile comprendere con chiarezza che la loro vita privata è un inferno d’infelicità… È questa la «piaga del consorzio umano», e la risposta, ne sono certo, è che se le miserie dell’umanità dovessero palesarsi tutte insieme e spontaneamente, a risultarne potrebbe essere il genocidio di massa.

Col passare del tempo, aumentava il disincanto di Foos nei confronti dei suoi ospiti, i cui comportamenti lo spingevano a porsi più ampie domande sulla condizione umana, così come sulle proprie convinzioni politiche. A due passi dal motel Manor House si trovava il Fitzsimons Army Medical Center, che negli anni Sessanta e Settanta funse da dimora temporanea per i veterani del Vietnam feriti. All’epoca in cui costruì la sua piattaforma di osservazione Foos era solo moderatamente contrario a quella guerra, ma col protrarsi del conflitto cambiò opinione. Nel Diario del voyeur scrive:

Si è presentato un maschio che lavora nell’esercito e sostiene di aver perso la gamba in Vietnam. Ha preso una stanza per cinque giorni e dall’ospedale l’hanno autorizzato a starci con la moglie, che è venuta a trovarlo dal Michigan.

La gamba artificiale era fissata appena sotto il ginocchio, il moncone rosso e infiammato. Alla sera Foos vide la moglie aprire due bottigliette di Coca-Cola, e il marito fare un brindisi:
«A quel che fa girare il mondo!» «Il sesso?» La donna ha sorriso. «Ma no! I soldi! Solo per quelli la gente farebbe qualsiasi cosa. Secondo te perché stiamo facendo la guerra in Vietnam. Per gli stramaledetti soldi».

Qualche anno dopo si presentò al Manor House un altro veterano ferito – stavolta paraplegico – insieme con la moglie. Foos guardò quest’ultima mentre cercava di aiutare il marito ad alzarsi dalla sedia a rotelle e gli svuotava la sacca del catetere. A un certo punto il marito le chiese: «Perché continui ad amarmi anche se sono ridotto così?» La moglie si mostrò affettuosa e partecipe, e dopo aver osservato la coppia intrattenere un riuscito rapporto sessuale Foos scrisse: «Ho avuto occasione di osservare molte delle deplorevoli e incresciose tragedie della guerra in Vietnam. Questo soggetto è fortunato. Ha una moglie affettuosa e comprensiva». Un’altra volta affittò due stanze comunicanti a un pilota con la sua ragazza e un amico. Spiandoli, Foos sentì il pilota vantarsi di aver «fatto volare un soldato Vietcong fuori dal suo elicottero». E scriveva: «Il soggetto mi disgusta». Il pilota descrisse anche «il suo sport preferito, che è inseguire i coyote con l’elicottero e sparargli». Quella notte Foos vide l’amico single masturbarsi ascoltando, con l’orecchio attaccato alla porta fra le due stanze, il pilota a letto con la ragazza. La conclusione di Foos registra la sua antipatia: «Il loro disprezzo per gli animali» e la sorte di quel soldato Vietcong lo inferocivano, anche se poi aggiunge una nota egocentrica in cui sottolinea che il lascivo origliare dell’amico «rende lapalissiana la mia tesi secondo cui tutti gli uomini, in una certa misura, sono dei voyeur».

A Foos piaceva chiacchierare del più e del meno con i suoi soggetti dopo averli osservati. Se scopriva che un cliente viveva a Denver o dintorni, a volte, dopo che quella persona se n’era andata, la seguiva fino a casa. Capitò con una donna di mezz’età che era arrivata al motel con un uomo ben vestito e più giovane di lei. La donna preparò due cocktail, poi si svestì. Mentre si attorcigliavano sul letto, lei gemendo forsennatamente, l’uomo si fermò di colpo. «Sto avendo problemi a pagare le rate della macchina», disse. La donna prese la borsetta e gli allungò un biglietto da cento dollari. Lui riprese a dedicarsi al suo corpo disteso. Dopo averla soddisfatta rifiutò la sua offerta di ricambiare, poi cedette. «Mi servono altri cinquanta dollari per finire di pagare le bollette», disse. Lei gli diede i soldi e diversi minuti dopo se ne andarono. Quando la donna salì in macchina e ripartì, Foos le andò dietro con la sua e la vide entrare nel suo appartamento presso una casa di riposo. La spiò dalla finestra della cucina. «Era in lacrime», scrisse. Foos fece un giro nel complesso e si informò sulla donna con un vicino, scoprendo che il marito era morto in Vietnam e il figlio frequentava l’università altrove. Nella conclusione scrisse: «L’enorme desiderio sessuale che alcune donne di mezz’età esprimono durante questi incontri è decisamente tragico». Aggiunge di aver già visto lo stesso gigolò nel suo motel in compagnia di uomini.

Oltre a raccogliere dati su stili e posizioni sessuali, preliminari e discorsi fra le lenzuola, Foos era interessato a ciò che i suoi clienti facevano in bagno. A questo scopo aveva installato griglie d’osservazione anche in diversi bagni del Manor House. Una donna si sedeva sul gabinetto «all’amazzone». Un uomo ci si sedeva al contrario, rivolto al muro. Annota Foos: «Ogni posizione o approccio immaginabile alla toilette è stato osservato». Foos aveva perso il conto degli uomini che urinavano nel lavandino. Esprimeva rabbia verso l’industria dei sanitari per l’incapacità di affrontare i problemi degli uomini nel dirigere con precisione il getto d’urina. («Fosse per me, progetterei una toilette domestica più simile a un orinatoio», mi disse). Si lamentava dei clienti che fumavano, non perché appestassero la stanza, ma «perché il fumo sale in alto ed entra nel pannello», ostacolandogli la visuale. Si annotava anche le persone il cui comportamento trovava strano o inquietante: il tizio che di nascosto orinava nel bourbon dell’accompagnatrice; l’obeso che si era presentato con un uomo molto più giovane, al quale aveva poi fatto indossare un costume di pelliccia con le corna dicendo: «Sei una creatura divina; il più bel ragazzo-pecora che io abbia visto». Ma il più delle volte, per Foos, osservare i clienti era deprimente. Litigavano. Guardavano troppo la televisione. (Cosa fastidiosa soprattutto quand’erano attraenti, e avrebbero potuto invece dedicare il tempo a fare sesso). Dopo aver osservato un rapporto sessuale giudicato come al solito insoddisfacente per la donna, scrisse:

Questa è la vita vera… Queste sono persone reali! Mi indigna profondamente il fatto che io solo debba sopportare il peso delle mie osservazioni. Questi soggetti non troveranno mai la felicità, e il divorzio è inevitabile. Lui non ha la minima nozione sul sesso, né su come vada praticato. Sa solo penetrare e spingere, fino all’orgasmo, sotto le coperte e con la luce spenta. Il voyeurismo ha acuito enormemente il mio scetticismo nei confronti degli sforzi umani, e detesto questo suo modo di influenzarmi l’anima… Ciò che più mi indigna è che la maggior parte dei soggetti sia in linea con questi individui sia nel carattere che nei comportamenti. Molti approcci alla vita muterebbero all’istante, se la nostra società avesse modo di essere «voyeur per un giorno».

Nel riflettere sul «peso» del suo impegno come guardone, Gerald Foos si vede come una persona in trappola. Non aveva alcun controllo su ciò che vedeva, né poteva sottrarsi ai suoi effetti. Leggendo le parti di diario che mi spediva, e che andavano dalla metà degli anni Sessanta fino a metà dei Settanta, notai che il suo personaggio di scrittore cambiava, passando gradualmente da narratore in prima persona a personaggio di cui scriveva alla terza. A volte usava la parola «io», altre volte parlava di se stesso come del «voyeur». Le annotazioni si fanno via via sempre più ampollose, e Foos comincia a investire il personaggio onnisciente del Voyeur di qualità divine. Sembra cominciare a perdere i contatti con la realtà. Ma solo una volta, mentre era appostato in soffitta, capitò che da sopra un pannello parlasse alla persona che c’era sotto. Stava osservando la stanza numero 6, dove vide un cliente che mangiava il pollo del Kentucky Fried Chicken seduto sul letto. Anziché usare dei tovaglioli, l’uomo sfregò le mani sulle lenzuola, quindi si pulì l’unto dalla barba e dalla bocca con il copriletto. Senza rendersene conto, Foos esclamò ad alta voce: «Brutto figlio di puttana!» Il soggetto smise di mangiare e si guardò intorno, poi andò alla finestra e guardò fuori. Si era reso conto che qualcuno aveva gridato «brutto figlio di puttana», ma non riusciva a stabilire da che direzione fosse arrivato l’insulto. Tornò alla finestra. Guardò fuori una seconda volta e per qualche minuto rimase a riflettere sulla situazione, dopodiché tornò ai suoi animaleschi usi alimentari.

Foos perse il controllo in altre occasioni, ogni volta rischiando di tradirsi. Un giorno stava osservando una coppia venuta in città per un acquisto di bestiame. Dopo aver mangiato degli hamburger di McDonald’s (pulendosi le mani sui jeans) e guardato una replica di Gunsmoke, si misero a letto. Foos era ansioso di vedere la donna svestita, ma l’uomo spense la luce. «Una cosa del genere non la tollero», scrive Foos nel diario. «Torno al pianterreno e parcheggio la macchina dritto davanti alla loro stanza, con gli abbaglianti accesi». Tornato in soffitta, Foos si trovò davanti un altro ostacolo.

La stanza è molto ben illuminata, e l’uomo comincia a spingere come un animale sotto le coperte. Dopo tre minuti si ritrae di colpo e parte verso il bagno. Finalmente riesco a vedere il corpo di lei, quando si scopre per ripulirsi dallo sperma con il mio copriletto. È splendidamente proporzionata, ma probabilmente altrettanto stupida e ottusa. Lui torna dal bagno e si accorge che le luci fuori sono ancora accese. Dice: «Non so proprio che cosa stiano facendo, con questa macchina qui fuori a fari accesi».

L’annotazione si chiude con una riflessione esistenziale: Foos sta affondando sempre di più nell’isolamento e nella disperazione. Più andavo avanti a leggere, più mi convincevo che la pomposa metafisica fosse il tentativo di elevare il proprio inquietante passatempo a cosa di valore. Conclusione: non riesco ancora a stabilire quale sia la mia funzione… Mi è chiaramente toccata la responsabilità di questo pesante fardello. Non poterlo mai dire a nessuno!… La depressione aumenta, ma procederò comunque con la mia ricerca. Mi è capitato di riflettere sul fatto che forse io non esisto, sono solo il frutto di un sogno dei soggetti. Ai miei successi di voyeur nessuno crederebbe in ogni caso, motivo per cui la manifestazione onirica potrebbe spiegare la mia realtà.

Foos mi aveva spiegato fin dall’inizio di considerare il suo voyeurismo come una seria attività di ricerca, intrapresa, seppur in termini vaghi, per il miglioramento della società. Alla fine di ogni anno raccoglieva le sue osservazioni in un resoconto annuale, cercando di estrapolare le tendenze sociali significative. Nel 1973 scriveva che, dei 296 atti sessuali a cui aveva assistito, 195 riguardavano eterosessuali bianchi, che prediligevano la posizione del missionario. Complessivamente aveva contato 184 orgasmi maschili e 33 femminili. L’anno successivo, le attività sessuali da lui ritenute degne di trascrizione furono 329. Suddivideva inoltre le persone in categorie sulla base dell’appetito sessuale:
– il 12% delle coppie osservabili al motel ha una sessualità intensa. – il 62% ha una vita sessuale moderatamente attiva. – il 22% ha scarsi appetiti sessuali. – il 3% non fa sesso.
Nel 1973 Foos osservava soltanto cinque casi di sesso fra razze diverse; nel 1980, mi disse, la cifra era arrivata a sfiorare i venticinque. Foos lo considerava uno dei tanti esempi di come il suo piccolo motel riflettesse i mutamenti sociali dell’intero Paese. Un’altra delle categorie di Foos, nonché una delle più ampie, era quella delle «persone oneste ma infelici». Erano in buona parte coppie di fuori città che, durante i brevi soggiorni, gli riempivano le orecchie di lamentele sul loro matrimonio. Si ripeteva costantemente quant’era fortunato ad avere come moglie Donna. Era un’infermiera a domicilio, una complice del suo curiosare, e una segretaria personale che quando Foos era troppo stanco per scrivere il suo diario sapeva stenografare ciò che lui le dettava.

Con il passare degli anni cominciò a mostrarsi più interessato a ottenere un riconoscimento per quella che considerava una ricerca pionieristica. Esisteva per necessità nell’ombra, da dove mandava avanti il suo laboratorio per lo studio del comportamento umano. Riteneva che il suo lavoro fosse superiore a quello dei sessuologi dell’Istituto Kinsey e della clinica Masters & Johnson. Lì le ricerche venivano spesso condotte grazie a volontari. I soggetti di Foos, non avendo coscienza di essere osservati, fornivano informazioni più precise e, dal suo punto di vista, di maggior valore. Alla fine degli anni Settanta successero due cose che trasformarono la natura del diario di Foos. Subentrò il disincanto rispetto a ciò che vedeva da dietro i pannelli, e cominciò a capire che per lui era impossibile ottenere il riconoscimento scientifico che sentiva di meritare. I suoi scritti cominciano a riflettere non solo ciò che prova guardando le persone, ma anche ciò che prova nei confronti di se stesso e della sua ossessione, a partire dalle sue origini di ragazzino cresciuto in una fattoria e infatuato di sua zia Katheryn. Cominciò un altro quaderno, più autobiografico, che intitolò Il collezionista. Qui riportava la storia che mi aveva raccontato la sera in cui l’avevo conosciuto, mentre viaggiavamo in macchina dall’aeroporto. Scriveva però di se stesso alla terza persona, come se fosse il personaggio di un romanzo: Il ragazzo si mosse silenzioso nella notte, attraversando il prato e scavalcando il recinto di filo spinato… Le persiane aperte, ignare, lasciavano giocare la brezza da nordovest negli spazi della stanza. Il ragazzo guardò dentro, dimenticandosi il freddo e la pioggia fuori, dimenticando l’essenza, dimenticando il tempo… Mentre osservava sua zia, si avvicinò agli oggetti della sua collezione.

Il momento in cui Foos arrivò più vicino ad ammettere il suo interesse particolare per la zia avvenne qualche giorno prima del suo decimo compleanno, quando confessò alla madre che era invidioso della collezione di ditali e bambole della zia, e che voleva averne una anche lui. La saggia madre gli suggerì di cominciare a collezionare figurine del baseball. Lo indusse così a inaugurare un hobby che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita, portandolo ad accumulare le decine di migliaia di figurine sportive che possedeva quando lo conobbi, nel 1980, e lui aveva quarantacinque anni. Ma associava sempre il suo collezionismo all’attrazione provata da bambino per la zia. Scriveva: «Il ragazzo confonde la sessualità con l’arte di accumulare oggetti… Tra la nudità di sua zia e il suo collezionismo esisteva un nesso diretto». Negli ultimi anni aveva cominciato a collezionare anche francobolli, monete e armi d’epoca, e da bambino aveva tenuto da parte diverse code di topo muschiato, scarti della scuoiatura di quelli catturati da lui e dal padre: uno dei suoi compiti domestici. (La collezione andò dispersa, dice, dopo che i genitori si lamentarono dello «strano odore nella mia stanza»). Gerald era il primo di due figli nati da Natalie e Jake Foos; aveva cinque anni più del fratello Jack. Gerald riconosceva di avere un carattere «solitario». Quando non era impegnato con il lavoro in fattoria o a spiare sua zia, gli capitava spesso di «guardare il cielo, e sentire che fuori qualcosa mi aspettava». La madre lo aveva esortato a farsi la tessera della biblioteca, e lui passava le ore a leggere. Scrisse: «I libri mi incantavano, così come quella che si potrebbe definire “la vita della mente”, e la vita che non consisteva nel lavoro manuale o in quelli della fattoria o di casa, ma che nella sua eccezionalità sembrava trascendere simili attività».

Alcuni ricordi di Foos lasciano intravedere ciò che sarebbe diventato: «La cittadina era un autentico paradiso rurale: ancora negli anni Venti, circa duemila fattorie, con una media di oltre trenta ettari di terreno ciascuna». Proseguiva descrivendo la sua infanzia:

Sono molto curioso di tutto e di chiunque veda… e mi è anche capitato di sentirmi invisibile, come può sentirsi invisibile un bambino lontano dalla sorveglianza degli adulti. La conseguenza di tanta libertà non sorvegliata fu che diventai precocemente indipendente.

Foos non superò mai del tutto il suo primo amore, una cheerleader delle superiori di nome Barbara White, che insieme a folle di spettatori esultava dalle gradinate quando lui batteva un fuoricampo o andava in meta. Succedeva nel 1953, quando Foos frequentava l’ultimo anno, e ho visto ritagli che parlavano di lui presi dal Greeley Daily Tribune, che ne pubblicava regolarmente la fotografia riportando i suoi successi. «Foos si è lanciato in uno splendido scatto, schivando un paio di potenziali placcaggi sulla linea di mischia e tirando dritto anche una volta nuovamente intercettato sui dieci metri», recitava un articolo. Barbara White lasciò Foos dopo aver scoperto che era un feticista dei piedi. Nel quaderno, il periodo militare di Foos produce poche informazioni in quanto, sostiene lui, le esperienze più interessanti fatte in Marina erano tutte «top secret». Anni dopo il congedo, e dopo aver costruito la piattaforma d’osservazione nel suo motel, aveva a volte la sensazione di essere ancora in Marina, al largo, intento a scrutare oltre i suoi pannelli come un tempo aguzzava la vista attraverso i binocoli quand’era di guardia sul ponte, per avvistare eventuali oggetti degni di interesse. La vita in soffitta era monotona. Il suo motel era una nave ferma in un bacino di carenaggio, i cui passeggeri guardavano perennemente la televisione, parlavano di banalità, facevano sesso perlopiù sotto le coperte, se lo facevano, e gli davano così poco di cui scrivere che a volte non scriveva affatto. Gli venne a noia anche catalogarne le disonestà. A volte cercavano di fare i furbi per non pagare la stanza, e difficilmente passava settimana senza che Foos assistesse a qualche tentativo di raggiro. Una coppia proletaria gli chiese una proroga di qualche giorno sul pagamento del conto. Il giorno dopo, spiandoli, Foos sentì il marito dire alla moglie: «Lo scemo della reception crede che stia per arrivarmi un assegno da Chicago, e noi lo fregheremo come abbiamo fatto in quel motel di Omaha». Foos li chiuse fuori dalla stanza e trattenne le loro cose finché non lo pagarono.

Conclusione: migliaia di persone infelici e insoddisfatte si trasferiscono in Colorado allo scopo di colmare quel profondo languore dell’anima, con la speranza di fare una vita migliore, e arrivando qui senza un soldo trovano soltanto disperazione… La società ci insegna a mentire, rubare e imbrogliare, e l’inganno è il tratto supremo del temperamento umano… Ora che il mio lavoro di osservazione sta per entrare nel suo quinto anno, comincio a nutrire un certo pessimismo sulla china presa dalla nostra società, e a furia di constatare la futilità di ogni cosa la mia depressione aumenta.

Queste esperienze spinsero Foos a ideare una «prova d’onestà». Lasciava una valigia, chiusa con un lucchetto da due soldi, nell’armadio di una delle stanze. Quando un cliente si registrava diceva a Donna, facendosi sentire dal cliente, che qualcuno aveva appena telefonato dicendo di aver dimenticato una valigia con dentro mille dollari. Poi, dalla soffitta, Foos guardava il nuovo cliente che trovava la valigia e rifletteva se rompere il lucchetto per dare un’occhiata dentro oppure riportarla alla reception. Dei quindici clienti sottoposti alla prova d’onestà, fra i quali un prete, un avvocato e un tenente colonnello dell’esercito, solo due restituirono la valigia all’ufficio con il lucchetto intatto. Tutti gli altri la aprirono e poi tentarono di sbarazzarsene in vari modi. Il prete la spinse fuori dalla finestra del bagno facendola cadere fra i cespugli. Qualche anno dopo che Foos aveva cominciato a spedirmi le fotocopie delle sue pagine di diario scritte a mano, ricevetti da lui un pacco contenente un dattiloscritto di trecento pagine con le osservazioni registrate fino alla fine del 1978. Comprendeva il materiale dei diari scritti a mano durante i suoi primi anni da guardone del motel, ma una parte consistente del manoscritto mi risultava nuova. Proseguiva nella stessa vena delle annotazioni precedenti: una litania di atti sessuali indifferenziati e resoconti di gente che litigava. C’era però un’annotazione, del 1977, in cui il Voyeur affermava di aver visto, per la prima volta, più di quel che volesse vedere.

Ciò che vide fu un omicidio. Successe nella stanza numero 10. Foos descrive i clienti come una giovane coppia che aveva preso una stanza per alcune settimane. L’uomo, poco meno che trentenne, pesava ottanta chili. Origliando, il Voyeur dedusse che aveva interrotto gli studi universitari e faceva il piccolo spacciatore. La ragazza era bionda, con una quarta di reggiseno. (Foos era entrato nella stanza mentre la coppia non c’era e aveva controllato la taglia del reggiseno, cosa che dice di aver fatto spesso). Foos dedica pagine su pagine a un soddisfatto resoconto della loro vigorosa vita sessuale. Nel diario si parla anche di persone che si presentano alla porta della stanza numero 10 per acquistare droga. Foos ne è turbato, ma non lo comunica alla polizia. In precedenza aveva sempre segnalato i traffici di droga che vedeva nel motel, ma la polizia non era mai intervenuta perché lui non poteva presentarsi come testimone oculare dei fatti denunciati.

Un pomeriggio Foos vide l’uomo nella stanza 10 vendere droga a dei ragazzini. Andò su tutte le furie. Scrive nel diario: «Quando al pomeriggio il soggetto maschio ha lasciato la stanza, il Voyeur vi si è introdotto… Il Voyeur, senza alcun senso di colpa, ha tranquillamente gettato tutta la droga e la marijuana rimaste nello scarico del gabinetto». Gli era capitato varie volte di gettare nel gabinetto la droga dei clienti, sempre senza conseguenze. Stavolta l’uomo della stanza 10 accusò la fidanzata di avergli rubato la droga. Prosegue il diario:
Dopo circa un’ora di litigi e discussione, la scena al di sotto del Voyeur si è fatta violenta. Il soggetto maschio ha preso il soggetto femmina per il collo e ha stretto finché lei non si è accasciata priva di sensi. Il soggetto maschio, colto dal panico, ha preso le sue cose ed è fuggito dal motel. Il Voyeur… senza dubbio… deve aver visto il petto del soggetto femmina che si muoveva ancora, a indicargli che era ancora viva e quindi fuori pericolo. Ergo, il Voyeur deve aver pensato che il soggetto femmina fosse sopravvissuto al tentativo di strangolamento, e quindi in salvo, e si è rapidamente allontanato per quella sera dalla piattaforma d’osservazione.

Foos arrivò alla conclusione che non avrebbe comunque potuto fare nulla, «perché in quel preciso istante non era altro che un osservatore, non un giornalista, e che quindi per quel che riguardava i soggetti maschio e femmina non esisteva realmente». L’indomani mattina una donna delle pulizie corse nell’ufficio del motel dicendo che nella stanza 10 c’era una donna morta. Foos scrive di aver chiamato immediatamente la polizia. Quando arrivarono, gli disse il nome dello spacciatore, l’aspetto che aveva e il numero di targa. Non disse di aver assistito all’omicidio. Scrisse: «Il Voyeur stava infine facendo i conti con la propria morale e avrebbe per sempre dovuto soffrire in silenzio, senza però mai condannare la propria condotta o il proprio comportamento in quelle circostanze». Il giorno dopo la polizia tornò e disse a Foos che lo spacciatore stava usando un nome falso e una macchina rubata.

Trovai questo aneddoto nel dattiloscritto di Foos alcuni anni dopo essere andato a trovarlo ad Aurora, e quasi sei anni dopo l’omicidio. Fui scioccato e sorpreso che Foos non avesse accennato all’episodio in precedenza. Sembrava quasi che lo considerasse una serata in soffitta come tante. Eppure, riflettendoci meglio, la sua reazione – l’affermare che «per quel che riguardava i soggetti maschio e femmina non esisteva realmente» – era in linea con la percezione che aveva di se stesso come individuo scisso. E proteggeva disperatamente la sua vita segreta nella soffitta. Se la polizia, interrogandolo, avesse stabilito che sapeva più di quanto aveva raccontato, avrebbe forse potuto ottenere un mandato di perquisizione, con conseguenze potenzialmente catastrofiche. Lo chiamai subito per avere ragguagli sulla situazione. Volevo capire se si rendeva conto che, oltre ad aver assistito a un omicidio, poteva anche, in qualche modo, averlo causato. Si mostrò riluttante a dire più di quel che aveva scritto nel suo diario, e mi ricordò che avevo firmato un accordo di riservatezza. Trascorsi alcune notti insonni, chiedendomi se dovessi denunciarlo. Ma riflettendo mi dicevo che era troppo tardi per salvare la ragazza dello spacciatore. Inoltre, avendo io mantenuto il segreto del Voyeur, avevo l’inquietante sensazione di esserne complice. Misi da parte i suoi appunti sull’omicidio insieme con tutto il materiale che mi aveva spedito. A quel punto sapevo del Voyeur tutto ciò che desideravo sapere.

Nel corso dei successivi decenni, continuai a ricevere lettere dal signor Gerald Foos di Aurora, in Colorado. Mi diceva che, a quanto sapeva lui, gli investigatori non erano riusciti a trovare l’assassino, ma che la polizia si era presentata al Manor House per altri motivi. Un cliente si era suicidato, mi disse, sparandosi con una pistola. Un uomo che pesava oltre duecento chili era stato stroncato da un infarto, e poiché il suo corpo rigonfio non passava dalla porta, i pompieri avevano dovuto rimuovere dalla stanza la grande finestra. Queste informazioni erano accompagnate dalle sue rimostranze sugli orrendi esempi di comportamento umano cui aveva assistito, che comprendevano furti, stupri e sfruttamento sessuale. Aveva finito per convincersi che l’avvento della pillola anticoncezionale, nei primi anni Sessanta, e da lui inizialmente festeggiato, avesse indotto tanti uomini ad aspettarsi il sesso su richiesta: «Le donne avevano conquistato il diritto legale a scegliere, ma perso quello a scegliere il momento giusto». Riteneva che la guerra fra i sessi fosse degenerata e che le relazioni sessuali stessero peggiorando, anziché migliorare. (Le lesbiche, che Foos ammirava, facevano eccezione). Con l’acuirsi della sua misantropia, il linguaggio che Foos dedica ai clienti del motel si avvicina sempre di più a una descrizione involontaria della sua coscienza. Scrive di sentirsi «sopraffatto dall’elemento fantastico, dalla messa in scena e dalle macchinazioni del mondo reale». Prosegue: «Le persone sono sostanzialmente disoneste e impure; ingannano, mentono e perseguono l’interesse personale». Dichiara di essere diventato estremamente antisociale, e che quando non si trovava in soffitta i clienti evitava di vederli.

Mi sfiorò il pensiero che Foos si avvicinasse a una sorta di esaurimento nervoso. Mi ricordava il presentatore psicotico di Quinto potere, che implode gridando: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!». Mi ricordava anche il racconto di John Cheever del 1947 Una radio straordinaria, in cui un matrimonio a poco a poco entra in crisi perché una nuova e misteriosa radio consente all’uomo e alla donna di ascoltare le conversazioni e i segreti dei vicini; e al romanzo di Nathaniel West del 1933 Miss Lonelyhearts, in cui la vita del tenutario di una rubrica di consigli si deteriora per effetto del contatto con le vite tristi e vuote dei lettori. Gerald Foos aveva ambizioni letterarie e scientifiche, ma nessuna coscienza di sé. Era un ficcanaso che dalla soffitta rivendicava una superiorità morale snocciolando giudizi sulle persone sottostanti. Io dove mi collocavo, in tutto ciò? Ero l’amico di penna del Voyeur, il suo confessore, forse, oppure l’assistente di una vita segreta che lui aveva scelto di non mantenere completamente segreta. Diverse volte, nel corso degli anni, mi venne in mente che sarebbe stato saggio interrompere la nostra corrispondenza. Foos non era un soggetto del quale potessi scrivere, nonostante la mia curiosità su come sarebbe finita. L’avrebbero scoperto? E nel caso, quale sarebbe stata la strategia processuale dei suoi avvocati? Era così ingenuo da pensare che i membri della giuria avrebbero sposato la sua tesi per cui quella soffitta era un laboratorio in cui si cercava la verità? Non solo: era possibile che mi chiamassero a testimoniare? Eppure, quando arrivava una busta da Foos, io la aprivo. Nel marzo del 1985, dopo un lungo silenzio, mi scrisse per dirmi che Donna era morta. Aveva sui quarantacinque anni e soffriva di lupus. Nella sua vita era entrata un’altra donna, una divorziata di nome Anita Clark. L’aveva conosciuta un pomeriggio, mentre lei trascinava i due figli piccoli giù per East Colfax Avenue in un carretto rosso. Anita era subentrata a Donna nell’ufficio del motel, e proprio come lei era felicemente complice della vita segreta di Foos. Anita si considerava una guardona a tutti gli effetti. Dalle lettere successive scoprii che gli affari andavano molto bene, tanto che nel 1991 Foos comprò un secondo motel nella stessa via, il Riviera. Lì installo quattro finte griglie di ventilazione, ma la sede primaria delle sue osservazioni rimase il Manor House. Malgrado questo apparente successo, Foos era ancora tormentato. Scriveva: «I voyeur sono dei disgraziati che la maggior parte delle persone considera difettosi e imperfetti, e che Dio non guarda con favore».

Non ricevevo notizie di Gerald Foos da molto tempo quando, nel luglio del 2012, lessi sulla prima pagina del Times che un uomo di ventiquattro anni, figlio di un’infermiera, aveva ucciso a colpi d’arma da fuoco dodici persone, e ferito decine di altre, in un cinema di Aurora, in Colorado. Dopo aver scorso l’articolo e visto che il nome di Foos non compariva fra quelli delle vittime, lo chiamai. Curiosamente, mi disse che una volta era stato nell’appartamento dell’assassino: il figlio di Foos vi aveva abitato in precedenza. «Dopo aver trasferito mio figlio in un altro quartiere», disse, «questo tizio deve aver preso il suo posto, anche se non ricordiamo di aver mai incrociato la persona di cui adesso tutti i giornali pubblicano la foto». Di lì a qualche settimana Gerald Foos riprese a scrivermi lettere, parlando della strage nel cinema con il suo solito stile altisonante: «Che le genti di Aurora non abbiano trattato il loro prossimo con gentilezza e rispetto, facendo così calare su di noi la spada di Damocle?». Aveva venduto i suoi due motel nel 1995, quando l’artrite alle ginocchia gli aveva reso troppo doloroso salire la scale e girare carponi per la soffitta. Dapprima aveva rimosso i pannelli e chiuso le aperture nei soffitti. Con i proventi delle vendite, lui e Anita avevano comprato un ranch nelle Montagne Rocciose, e si dividevano fra quello e una casa situata in un campo da golf di Aurora. Aveva nostalgia dei motel, che definiva «quello spazio protetto, quel territorio sacro», pur traendo conforto dalla convinzione che il settore fosse in declino. Quando aveva cominciato lui, nei Sessanta, i motel prosperavano grazie al «mercato degli appuntamenti»; gli ospiti potevano entrare nella stanza direttamente dalla macchina, senza dover interagire con nessuno in un atrio o in un ascensore. Le coppie di oggi, diceva, sembravano meno interessate a quella segretezza e discrezione. Mi scrisse che gli mancava il potere provato come Voyeur. Raccontava di essersi tinto i capelli, e poi vergognato osservandosi riflesso nello specchio del bagno: tingersi i capelli era una forma d’inganno, in contrasto con la percezione che aveva di sé come persona che diceva la verità. Dall’ultima volta che avevamo comunicato, Foos si era trovato un nuovo hobby. Ora lo interessava la sorveglianza praticata dallo Stato e dalle aziende. «Di quasi tutto quel che facciamo rimane traccia», mi disse al telefono. Parlò del fatto che la vita privata dei personaggi pubblici venisse rivelata dai media quasi quotidianamente, e che nemmeno il capo della C.I.A., il generale David Petraeus, fosse riuscito a tenere la propria vita sessuale al riparo dai giornali. A suo dire, i media operano «nel settore del voyeurismo, ma il voyeur più grande di tutti è il governo degli Stati Uniti», che tiene d’occhio la nostra vita quotidiana attraverso le telecamere di sorveglianza e la sua capacità di seguire le attività su Internet, le carte di credito, le transazioni bancarie, i cellulari, il Gps e i biglietti aerei, fra le altre cose. Mi chiedeva: «Starà forse pensando: “Perché tutto questo interessa a Gerald Foos?”. Perché è possibile che un giorno l’F.B.I. si presenti alla mia porta dicendo: “Gerald Foos, abbiamo le prove che lei guarda la gente dalla sua piattaforma d’osservazione. Cos’è, una specie di maniaco?”. E allora Gerald Foos risponderà: “E tu allora, Grande Fratello? Sono anni che mi osservi ovunque vada”».

Nella primavera del 2013, trentatré anni dopo averlo conosciuto, Foos mi telefonò per dirmi che era pronto a rendere pubblica la storia. Erano passati diciotto anni da quando aveva venduto i motel, e pensava che i termini di prescrizione l’avrebbero ormai protetto dalle denunce per violazione della privacy che i suoi ex clienti avrebbero potuto intentargli. Aveva settantotto anni, mi ricordò, e sentiva che, qualora non avesse condiviso le sue scoperte con l’opinione pubblica, rischiava di non vivere abbastanza a lungo da poterlo fare. Disse che scioglieva l’accordo di riservatezza da me firmato nel 1980 e mi diede il permesso di scrivere di lui usando tutto il materiale mostratomi nel corso dei decenni. (Quest’anno pubblicherò un libro su Foos, buona parte del quale sarà costituita dalle annotazioni del Diario del Voyeur. Per l’utilizzo del suo manoscritto, Foos ha ricevuto un compenso dall’editore).

Volai a Denver, dove incontrai Foos e Anita a colazione in un albergo dell’aeroporto. Lui portava un bastone, e a compensare i radi capelli grigi aveva un paio di baffi e il pizzetto, grigi anch’essi. Abbottonata stretta sul petto imponente portava una giacca di tweed, e sotto una camicia sportiva arancione. Anita era come me l’aveva descritta nelle lettere: aveva diciott’anni meno di lui, ed era una donna minuta, silenziosa, con i capelli rossi e crespi. Gerald voleva mostrarmi la sua collezione di cimeli sportivi: decine di migliaia di figurine che Anita aveva organizzato in ordine alfabetico. Mi spiegò che uno dei motivi per cui era ora disposto a rivelarsi come guardone era la speranza che la notorietà mediatica attirasse l’attenzione sulla sua collezione, che era ansioso di vendere. Era convinto valesse milioni. Io ero più interessato a parlare dell’omicidio a cui Foos sosteneva di aver assistito nella stanza numero 10 del motel Manor House nel 1977. Gli avevo comunicato che, senza citarlo come testimone, intendevo contattare la polizia di Aurora per verificare se avessero scoperto nuove informazioni al riguardo. Foos non si oppose, dicendosi pentito della sua negligenza al riguardo. Rivelando pubblicamente la sua storia e confessando le sue debolezze, sperava di ottenere una sorta di «redenzione». Durante quella colazione gli mostrai una lettera di Paul O’Keefe, allora tenente e oggi capo di divisione presso il dipartimento di polizia di Aurora, che scriveva: «Purtroppo non abbiamo trovato traccia di questo evento». Aveva controllato in diversi archivi di casi irrisolti, senza trovare nulla. Neppure due uffici di medicina legale possedevano alcuna informazione. In alcune telefonate successive, due ex agenti mi dissero che non era impossibile che negli archivi della polizia non rimanesse traccia di un caso come quello della donna senza nome da me descritto: l’identità della vittima era sconosciuta, in fin dei conti, e il delitto risaliva a prima che gli uffici di polizia cominciassero a tenere archivi elettronici. È anche possibile che Foos avesse commesso un errore nelle sue annotazioni, oppure trascrivendo la data dell’omicidio mentre copiava la pagina di diario originale in un diverso formato. Nel corso degli anni, scavando più a fondo nella storia di Foos, ho scoperto diverse incongruenze – perlopiù relative alle date – che mettevano in discussione la sua affidabilità. «Sembra proprio che quella ragazza sia sparita nel nulla», disse Foos. Ero convinto che per lui sarebbe stato un sollievo, ma mi disse di aver parlato con un avvocato. Ammettendo pubblicamente di aver assistito a un omicidio senza fare nulla per impedirlo, spiegò, «potrei essere considerato un complice. Potrebbero condannarmi per concorso in omicidio». Ciò nonostante, proseguì Foos, dopo aver passato anni a nascondersi era adesso pronto a confessare tutto. «Nella vita si corrono dei rischi, ma di questo non possiamo preoccuparci», disse. «Noi diciamo la verità e basta». Finito di mangiare, andammo in macchina a casa dei Foos. «Spero di non essere descritto come una specie di maniaco o di guardone», disse lui. «Io mi considero un pioniere degli studi sul sesso». Gli chiesi se avesse mai pensato di filmare o registrare i suoi clienti. «No», rispose, spiegandomi che farsi scoprire con quel genere di attrezzatura sarebbe stato compromettente, e utilizzarla poco pratico. Continuava a sostenere che quasi tutti gli uomini fossero per natura dei voyeur. «Mentre di solito le donne preferiscono essere guardate che guardare», aggiunse, «il che può forse spiegare come mai gli uomini spendano capitali in pornografia e le donne in cosmetici». Più tardi chiesi a Foos se avesse sentito parlare di Erin Andrews, la telecronista ripresa di nascosto mentre usciva dalla doccia della sua stanza d’albergo da uno stalker che aveva manomesso lo spioncino della porta. L’uomo, che ha poi pubblicato le riprese di Andrews nuda su Internet, è stato condannato e ha scontato venti mesi di carcere. Andrews ha denunciato sia lui che l’albergo chiedendo settantacinque milioni di dollari di danni per «l’orrore, la vergogna e l’umiliazione» subiti. Il mese scorso una giuria le ha riconosciuto la somma di cinquantacinque milioni di dollari.

Foos aveva seguito il caso sui giornali. Il suo punto di vista al riguardo non mi stupì: riecheggiava le contorte giustificazioni del suo comportamento che mi aveva offerto nel corso degli anni. «Anche se dico che gli uomini sono quasi tutti voyeur, alcuni di loro – come questo verme del caso Andrews – non meritano neppure il disprezzo», mi disse. «Lui è un prodotto delle nuove tecnologie, uno che mette alla berlina la sua preda su Internet, e le cui azioni non hanno nulla in comune con ciò che faccio io. Io non ho messo alla berlina nessuno. Lui ha fatto una cosa spietata e vendicativa. Se io facessi parte di quella giuria, voterei senza esitazioni per la sua condanna». Ci teneva a sottolineare di avere poco in comune con il predatore della Andrews. Gli chiesi perché, dopo aver passato metà della sua vita a invadere la privacy altrui, fosse così critico nei confronti dello Stato che raccoglieva informazioni ai fini della sicurezza nazionale. Ribadì che il suo era uno spionaggio «innocuo», in quanto i clienti non ne erano consapevoli, e poiché il suo scopo non era mai stato quello di incastrare o compromettere chicchessia. Disse di immedesimarsi in Edward Snowden, l’ex informatico della National Security Agency che ha diffuso illegalmente documenti governativi accusando i servizi segreti americani, per esempio, di aver intercettato il cellulare della cancelliera tedesca Angela Merkel. «Snowden, a mio parere, ha agito a fin di bene», disse Foos, aggiungendo che invece di essere processato, Snowden andasse lodato «per aver svelato alcuni errori della nostra società».

Anche Foos riteneva di aver agito a fin di bene, benché per il momento non avesse ancora rivelato nulla, se non alle sue mogli e a me. Quando gli chiesi quali «errori della società» desiderasse svelare, mi rispose: «Il fatto che delle persone praticamente non ci si possa fidare. Quasi tutte mentono, ingannano e sono disoneste. Ciò che rivelano di sé in privato tendono a nasconderlo in pubblico. Quello che tentano di mostrarti in pubblico non è quel che sono davvero». Siccome parlava di morale, ne approfittai per riportare la conversazione sull’omicidio. «Se avessi saputo che quella ragazza stava per morire, avrei immediatamente chiamato un’ambulanza», disse. Si era in seguito chiesto come avrebbe potuto salvarla senza compromettersi. «Gli avrei detto: “Passavo davanti alla finestra e ho sentito gridare”, o qualcosa di simile». Foos mi raccontò nuovamente la notte dell’omicidio, aggiungendo alcuni dettagli non presenti nel diario che avevo letto decenni prima. Quando la donna delle pulizie aveva trovato il cadavere nella stanza numero 10, «ho pensato: “Oh, no”», disse. Aveva mandato Donna a controllare che fosse realmente morta. Poi aveva chiamato la polizia. Mentre il medico legale faceva caricare il corpo su un furgone, disse Foos, «mi sentii male, continuavo a ripetermi: “Forse ne sei responsabile”». Malgrado ciò, pur ammettendo il rimorso per l’omicidio, continuava a non ravvisare serie malefatte nella sua attività in soffitta.

Le motivazioni di Gerald Foos continuavano a lasciarmi perplesso. Come poteva credere che, rendendo pubblica la sua sinistra vicenda, avrebbe ottenuto alcunché di positivo? Io stesso avrei facilmente potuto fornire prove che l’avrebbero condotto all’arresto, a cause legali e all’indignazione dell’opinione pubblica. Perché ambiva alla notorietà? A differenza dell’avventuriero ottocentesco degli Altri vittoriani, che produsse una lunga confessione – con La mia vita segreta – da cui però omise il proprio nome, Foos voleva consegnare il suo manoscritto al mondo, ed era disposto a rivelare la sua vera identità, con tutti i rischi che questo avrebbe comportato. Pensai che Foos aveva qualcosa in comune con un altro americano che voleva far leggere al mondo ciò che aveva scritto: Theodore Kaczynski, il cosiddetto Unabomber. Nel 1995, quando con le sue bombe casalinghe aveva già fatto tre morti e ventitré feriti, Kaczynski promise di «rinunciare al terrorismo» se il Times o il Washington Post avessero pubblicato il suo manifesto di condanna contro la società industriale. Il suo desiderio fu esaudito, ma in seguito Kaczynski fu scoperto e arrestato. Il fratello l’aveva riconosciuto dallo stile di scrittura. Unabomber si era fatto fregare dal suo stesso manoscritto. Le persone che acquistarono i motel di Gerald Foos nel 1995 presumibilmente non seppero mai perché i soffitti di alcune delle stanze avessero dei rappezzi in cartongesso di quindici centimetri per trentacinque. Nel 2014 il Manor House fu venduto a una società immobiliare che faceva capo a un imprenditore edile di nome Brooke Banbury. Il giorno dopo la firma del contratto, i precedenti proprietari se ne andarono tempestivamente, abbandonando i propri effetti personali e le proprietà del motel. Fra gli oggetti ritrovati nel Manor House c’era un fucile mitragliatore con tre cartucce cariche e dei proiettili di scorta. La moglie di Banbury avrebbe voluto donare gli oggetti del motel a un ente di beneficenza locale, ma non trovò nessuno disposto ad accettarlo. Allora il marito chiamò una squadra di demolitori per raderlo al suolo e portare via tutto. Di lì a due settimane, del motel Manor House rimaneva soltanto un terreno piatto circondato da una recinzione metallica.

Fu ciò che videro Gerald e Anita Foos quando, quattro mesi dopo, mi recai sul posto con loro. Non sapevano che il motel era stato demolito, e Anita parcheggiò accanto al recinto con le lacrime agli occhi. «Non è rimasto davvero niente», disse Foos, aprendo la portiera e scendendo con l’aiuto del bastone. I due attraversarono il cancello aperto della recinzione tenendosi sottobraccio. «Speriamo di trovare qualcosa da portare a casa», disse Foos camminando lentamente, con la testa china, in cerca di un ricordo o due da aggiungere alle sue collezioni, magari una maniglia o il numero di una stanza. Ma i demolitori avevano polverizzato tutto. A un certo punto Foos si abbassò e raccolse due pezzi di pietra dipinta di verde che avevano fiancheggiato il vialetto lungo il parcheggio (e da lui dipinti personalmente) e un pezzo di filo elettrico dell’insegna al neon rossa con il nome del motel. «Che peccato non essere venuti prima», disse. «Magari trovavamo un pezzo dell’insegna». Percorsero lentamente il terreno per un quarto d’ora, sempre a testa bassa. Faceva molto caldo, e Foos stava sudando. «Andiamo a casa», disse Anita. «Sì», convenne lui girandosi verso il cancello. «Ho visto abbastanza».

(Traduzione di Matteo Colombo)

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