Nella Madrid fastosa e miserabile del siglo de oro, i gatti Marramaquiz e Micifuf si contendono la dolce micina Zapaquilda, fra balli e fughe d’amore, serenate e duelli, una zampa sul liuto e l’altra alla spada, come impone l’onore castigliano. Il poema di Félix Lope de Vega, «La Gatomaquia», è un capolavoro, ennesima conferma che il tema «gatto» si addice ai grandi scrittori. Citare Baudelaire o Eliot sarebbe perfino banale; idem dire che i gatti di Félix hanno una raffinatezza psicologica che li rende più umani degli umani. 

Buona l’idea di ispirarcisi per una «fiaba musicale» per narratore, violino concertante e archi; ottimo il risultato ottenuto dall’autore di musica e parole, il pianista e compositore Orazio Sciortino. La sua «Gattomachia» è stata accolta benissimo domenica pomeriggio, in una Scala gremita di bambini per la serie «Grandi spettacoli per i piccoli» (per inciso: anche chi non ama i bambini e preferisce loro, poniamo, proprio i gatti, deve ammettere che un teatro pieno di under 18 è un bel vedere, un investimento sul futuro). 

Quello di Sciortino non è, per la verità, il solito pezzo didattico per ragazzini, se non altro perché l’orchestra di soli archi impedisce il consueto gioco modello «Pierino e il lupo» di identificare gli strumenti con i personaggi. Semmai, è un brano che ha più livelli di lettura: funziona come fiaba per bambini, che infatti ne sono rimasti affascinati, meglio ancora come divertissement per adulti che hanno voglia di tornare a esserlo per una mezz’oretta. C’è un narratore, Roberto Recchia, istrionico e spigliato, che racconta e «fa» le voci dei vari gatti, gattine e gattoni; e c’è il violino solista, Davide Alogna, bravissimo, che non descrive l’azione, ma commenta situazioni e sentimenti. Intorno, un’orchestra che sfrutta tutte le possibilità tecniche ed espressive degli archi, regalandoci un cangiante gioco di citazioni, dove passano Paganini, la musica antica, certi spagnolismi, un Novecento angoloso e cool fra Stravinski e Bartòk e inaspettate aperture di squisito lirismo.  

Sciortino si diverte e diverte. Ma la sua partitura, oltre che assai difficile per gli esecutori, è raffinatissima, perfino troppo per il pubblico cui è destinata: piacerebbe forse di più a una platea adulta e magari anche scafata, in grado di apprezzarne l’eclettismo antidogmatico, spiazzante e nonchalant. Da risentire, si spera, presto. Sulle prime esecuzioni assolute, si sa, è difficile dire come sia stata l’esecuzione: ma sia i Cameristi della Scala che il direttore Hakan Sensoy sono parsi convinti, quindi convincenti. 

Prima, per «fare serata», anzi pomeriggio, si sono ascoltati tre concerti barocchi (due Vivaldi e un Marcello, ma Alessandro), soliste altrettanti prime parti dell’Orchestra della Scala: il primo oboe Fabien Thouand, il primo fagotto Valentino Zucchiatti e il primo flauto Andrea Manco. Purtroppo questa musica, se viene fatta come si faceva prima della rivoluzione «filologica», appare oggi un tantinello noiosa nella sua meccanica ripetitività. Quanto al fatto che le prime parti della Scala siano degli autentici virtuosi, beh, questo, come dire?, lo sapevamo. 

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