PALERMO. Un veleno ci salverà. Anzi, un pharmakon, sostantivo femminile che, in greco antico, sta per medicinale, rimedio o veleno. Da recenti ricerche, infatti, è emerso che mamba, crotali, cobra, vipere e altri serpentelli dal morso fatale potrebbero presto diventare i migliori amici dell’ uomo, con buona pace di Fido.

Prendiamo il mamba nero, ad esempio. I composti isolati del suo veleno potrebbero fare da apripista per un nuovo genere di antidolorifici; quello del mamba verde del Congo, invece, potrebbe essere usato per combattere le cardiopatie mentre il veleno del serpente a sonagli (secondo gli studi dell’Instituto Butantan collegato al dipartimento della salute dello stato di San Paolo) sarebbe efficace contro il cancro della pelle grazie alla cromatina, una proteina isolata della sostanza nociva del rettile.

Rimanendo in terra di Brasile, i quaranta milioni di ipertesi che li usano forse non sanno che i loro farmaci Ace -inibitori sono ricavati dal veleno del «ferro di lancia dorato», un crotalo che, in altre circostanze, sarebbe meglio evitare.

Francis Markland, della University of southern California di Los Angeles, invece, conduce studi sul serpente americano «testa di rame» da cui sono state estratte sostanze (disintegrine) che, somministrate mediante un’iniezione intratumorale, hanno dato esiti positivi nella cura di topi immunodeficitari, per un modello di trapianto che potrebbe curare il cancro al seno: la tossina del «testa di rame», accumulandosi nel contesto del tessuto tumorale, ha agito inibendo l’ angiogenesi quindi il rifornimento di nutrienti (ovvero della massa tumorale) in circa il 70% dei casi esaminati.

Britannici, invece, sono gli studi condotti per combattere l’ipertensione e il diabete di Nicholas Casewell che, con un gruppo di ricercatori della Liverpool School of Tropical Medicine, ha pubblicato su Nature communications, i risultati delle sue ricerche su utili molecole trovate nel veleno di alcuni esemplari di rettili squamati come il pitone birmano e il serpente giarrettiera: separando e convertendo le componenti innocue e curative del veleno ovvero quelle che non hanno natura tossica, potrebbero essere prodotti nuovi composti terapeutici da trasformarsi in proteine fisiologiche.

«La ghiandola del veleno di serpente», ha dichiarato Casewell, «sembra essere un crogiolo di evoluzione per nuove funzioni delle molecole, alcune delle quali sono conservate nel veleno per uccidere la preda mentre altre vanno a servire nuove funzioni in altri tessuti del corpo».
Sebbene si sappia da tempo che il modo in cui agiscono le tossine le rende dei potenziali ingredienti per farmaci, lo difficoltà da superare era proprio la loro tossicità: la sfida, quindi, è riuscire a mantenere la loro potenza e potenzialità, liberandole dalla tossicità. Perché, secondo Wolfgang Wuster, coautore dello studio, «capire come le tossine possono essere addomesticate in innocue proteine fisiologiche, potrà favorire lo sviluppo di cure derivanti dal veleno».

Le proprietà farmaceutiche del veleno dei serpenti erano, comunque, già note. Basti pensare al «bastone di Esculapio» intorno al quale è attorcigliato un serpente che è sempre stato, fin dai tempi degli antichi greci, il simbolo dell’ arte medica. Cure a base di veleni animali sono citate in testi sanscriti del II secolo dopo Cristo dove si narra che, intorno al 67 avanti Cristo, il re del Ponto, Mitridate (che s’ interessava alla tossicologia) sia stato salvato due volte sul campo di battaglia da sciamani che gli curarono le ferite con veleno di vipera dell’ Orsini.

L’ uso del veleno di serpente in epoca moderna è stato iniziato nel 1827 da Constantin Hering ma, solo nel 1937, il farmacista -biochimico tedesco Waldemar Diesing è riuscito a liberare questi veleni dalla loro struttura proteica (quella che produce gli effetti nocivi -velenosi) lasciando inalterate le altre sostanze del veleno che, di solito, contengono fino a cinquanta diversi tipi di enzimi («la terapia del futuro è quella enzimatica», diceva).

La scienza che trasforma in cura un veleno animale è nata negli anni ’60 quando il medico inglese Hugh Alistair Reid, ha ipotizzato che il veleno dell’ancistrodonte della Malesia potesse essere usato contro la trombosi venosa profonda. E, come il primo anticoagulante (Arvin), oggi praticamente tutti sono a base di veleno di vipera.

E se dai rettili passiamo agli insetti, grande aiuto può venire anche dal veleno delle api che contiene mellitina, il più potente antinfiammatorio conosciuto in natura, ricco di sostanze analgesiche (di stamina, isolecitina e apamina) che agiscono sul sistema nervoso centrale ma anche sui tumori.

Un gruppo di ricercatori dell’ Università dell’Illinois di Urban ha usato la mellitina, risintetizzandola in grandi quantità in laboratorio (le api ne producono pochissima) per poi «impacchettarla» in nanoparticelle per veicolare la terapia nel cuore del tumore. Il risultato è che le nanoparticelle sono penetrate nel tessuto malato risparmiando le cellule sane limitrofe, bloccando la crescita del tumore.
Il veleno come terapia, quindi, anche se ci vuole del tempo prima che i risultati di laboratorio diventino medicine disponibili in commercio.

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