L’accordo globale sul clima, frutto delle lunghe giornate di discussione e confronto della COP 21, è stato redatto il 12 dicembre scorso. 

Primo passo di una finalmente diffusa consapevolezza della gravità e dell’ineluttabilità – a scanso di provvedimenti urgenti – dei cambiamenti climatici, vede e l’impegno a contenere l’aumento delle temperature ben al di sotto dei + 2°C e più vicini a +1,5°C rispetto ai livelli per-industriali. Il documento rappresenta il punto di partenza dal quale gli Stati dovranno fabbricare strategie volte a evitare conseguenze inconvertibili.

E fin qui ci siamo.

La mancanza di sanzioni per gli Stati non virtuosi, il fatto che l’accordo sia un insieme di raccomandazioni agli Stati (alla cui discrezione ci si affida)  e la non evidenziazione – ma già si sapeva,  considerate la forza  e diffusione delle lobby legate alla produzione e al consumo di alimenti di origine animale – nel conto totale  delle emissioni di Gas Serra dell’elevatissimo contributo degli allevamenti e del loro indotto ci lasciano  piuttosto inquieti e delusi. Ma non siamo gli unici. Pur nella sua mitezza, il patto ha creato preoccupazione nel comparto globale della zootecnia. Ne dà notizia il sito Global Meat News, pubblicando un impensierito articolo che analizza le possibili conseguenza sul settore dell’intesa parigina.

In particolare, il più alto rappresentante dell’International Meat Secretariat  afferma che i rappresentanti nazionali dell’industria zootecnica devono stringere legami stretti, tramite lobbying,  con i loro governi, per assicurarsi che il comparto non si trovi ad affrontare obiettivi non realistici. L’agricoltura, nella sua accezione di sistema produttivo alimentare, è stato l’unico settore ad essere menzionato in modo specifico nell’accordo finale di Parigi.  Nell’Articolo 2 del testo concordato, gli Stati hanno sottolineato l’importanza, come strategia di combattimento contro i cambiamenti climatici, dell’impegno  “sull’aumento della capacità di adattarsi agli impatti avversi del cambiamento climatico e sulla promozione di una resilienza climatica (*) e sullo sviluppo di basse emissioni di Gas Serra, in un modo che non minacci la produzione di cibo”. [Art.2,(b)]

Quest’ultima parte è il concetto che, riporta il Global Meat News, secondo  il Dr. Jonathan Scurlock –  principale consulente su energia e rinnovabili del National Farmers Union britannico – i produttori di carne  debbono sottolineare ai loro governi, se questi cercano di introdurre misure che rendano la loro industria non redditizia.

Alexandre Meybeck, consulente principale della FAO in tema di agricoltura, ambiente e cambiamenti climatici, sottolinea invece che il settore zootecnico potrà trovarsi a cercare approcci innovativi: “parte dell’Accordo di Parigi comprende un riconoscimento della necessità di adottare stili di vita più sostenibili e di una produzione più sostenibile. Ci saranno probabilmente dei cambiamenti progressivi nei modelli di consumo e ciò può condurre all’apprezzamento dei prodotti dal valore aggiunto”. Quali saranno i ‘prodotti’ a valore aggiunto? Nell’articolo si parla anche di bovini geneticamente modificati per emettere minori quantità di metano…

Non vogliamo, per ora, saperlo. Ci basta sapere che l’industria zootecnica è preoccupata a livello internazionale, anche da questo accordo pur non così stringente sul suo campo d’azione.

Paola Segurini
Responsabile Veg e Cambiamenu

(*) La resilienza climatica è la ricerca di riduzione del rischio e dei danni derivanti dagli impatti negativi (presenti e futuri) dei cambiamenti climatici in una maniera che sia efficace dal punto di vista socio-economico, e richiede l’elaborazione di strategie nazionali e regionali di adattamento ai cambiamenti climatici, che portino allo sviluppo di piani d’azione efficaci.

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