Il viaggio sulla moto – un vecchio modello Ducati degli anni ’90 sopravvissuto alle strade dissestate, alle intemperie e al pavé meneghino – fu breve e pieno di scossoni.
Io sedevo al posto del passeggero mentre mio fratello, che era passato a prendermi a casa, la guidava con gusto energico.

Era un tardo pomeriggio di una domenica soleggiata ed eravamo stati invitati a una grigliata organizzata da amici nelle campagne lodigiane.

Quando arrivammo al casolare in aperta campagna, dopo aver percorso un lungo viale affiancato a destra e a sinistra da alti pioppi, scesi rapido dalla sella. Il latrare furioso di due cani aveva già preannunciato il nostro arrivo e, sulla porta d’ingresso della vecchia casa di campagna, la nostra amica in un cappotto di panno scuro ci attendeva da qualche minuto.

Mentre mi dirigevo verso l’entrata di casa, notai con curiosità che, negli angoli del casolare più esposti a Nord, l’intonaco scrostato lasciava intravedere le linee grossolane dei mattoni color rosso terra e delle pietre crude e grigie.

Due ore e tre bicchieri di bonarda dopo, mi trovai a chiacchierare sul grande patio, piastrellato in una ceramica finissima e minuziosa, con il padre di questa amica.

«E così sei un medico veterinario?» mi domandò lui incuriosito.

Al mio cenno di assenso, il signore chiese «Ma il cane dopo che muore dove va?».

«Guardi, solitamente ci si appoggia a un’azienda esterna per lo smaltimento…» risposi io ancora incredulo per la domanda eccentrica.

«No, non hai capito. Io intendo in senso metafisico. Dove va il mio cane dopo che muore? C’è il paradiso anche per loro o si reincarnano in un altro cane?».

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