I messaggi pubblicitari delle più disparate marche di croccantini ed altri prodotti per animali domestici imperversano nei palinsesti di ogni canale televisivo nazionale. Progettati ad hoc per convincere i “padroncini” ad acquistare o donare cibo in beneficenza, mostrano gatti splendenti dalle dieci vite, cani oltremodo affettuosi e gioiosi di vivere, pappagalli chiacchieroni. L’industria dei cosiddetti “pets” è in crescita e conquistare la fiducia del pubblico a casa è enormemente remunerativo.

Si conta che 2 americani su 3 ne abbiano uno e, dal 1994 al 2015 sempre negli Stati Uniti, questo mercato ha triplicato il suo valore (da 17 a 60 milioni di dollari). Il mercato degli animali domestici ovviamente è comprensivo di ogni prodotto venduto e acquistato in relazione alla presenza di un pet in famiglia, quindi cibo, giocattoli, vestiti, collari, guinzagli, museruole, visite veterinarie, cure veterinarie, soggiorni in hotel, soggiorni in pensioni per cani, rincari sui bagagli in aereo e in treno: un mercato immenso, variegato, in cui è difficile non capitalizzare il proprio investimento. Per far capire quanto possano rendere questi animali domestici basti pensare che si sta tentando, con successo, di clonarli.

L’impatto ambientale dei pets è inoltre potente quanto quello economico: sarebbe ingenuo pensare che tutta questa spesa in cibo ed altro non comporti emissioni di CO² quantitativamente enormi. Gregory Okin, ricercatore dell’Università della California di Los Angeles, si è preso la briga di effettuare una stima al riguardo. Il risultato? Cani e gatti americani (due categorie di pets) consumano lo stesso quantitativo di carne della Francia (e di conseguenza l’impatto ambientale dei due mercati è equivalente).

Non è però scopo di questo articolo dissuadere il lettore dall’acquisto di un pet o dei croccantini ad esso destinati, ma porre sotto i riflettori un altro fenomeno economico sempre più evidente negli ultimi anni: la beneficenza per animali.
È in programmazione proprio in questo periodo la pubblicità di una nota marca di cibo per cani che promette di devolvere parte del ricavato in donazioni per animali in difficoltà.  Questo tipo di operazioni non è nuovo nel nostro paese come altrove e spesso, inoltre, il fundraising non è nemmeno legato all’acquisto di un particolare prodotto. Balzo, Banco Italiano Zoologico onlus, ha organizzato lo scorso anno una raccolta alimentare nazionale in soccorso degli animali colpiti dal terremoto del Centro Italia e le campagne “Inseparabili” e “A cuccia di cuori”, organizzate da Enpa (Ente Nazionale Protezione Animali) e Purina Friskies (Una delle aziende leader del settore degli alimenti per pets), hanno raccolto nel 2014 un milione di pasti da destinare ad animali bisognosi.

Al cospetto di tali somme viene naturale chiedersi se non sarebbe stato meglio, ad esempio, devolvere il ricavato della raccolta per gli animali del Centro Italia a esseri umani. Ed è impossibile ignorare che dietro questo genere di raccolte c’è sempre un fine promozionale, un ritorno d’immagine per l’azienda o l’associazione organizzatrice.
Il marketing sociale (ovvero come incrementare l’engagement del pubblico verso un’operazione solidale e come ottenere il miglior ritorno d’immagine da ciò) è una branca riconosciuta della comunicazione per le imprese. Tale considerazione reca implicitamente con sé un nuovo, allarmante interrogativo: per quale motivo un’azienda pensa di poter ottenere un ritorno d’immagine con la beneficienza per animali rispetto a quello che si può conseguire con altre forme di beneficienza, quali quella destinata agli esseri umani o alla salvaguardia dell’ambiente?

La risposta è dolorosa: a quanto pare il devolvere parte dei profitti in favore di bambini africani denutriti e agonizzanti non attira più come prima.

Certo, gli enti per la protezione degli animali e le industrie del croccantino hanno tutti i vantaggi del mondo ad associare il loro nome ad opere caritatevoli del genere ma, ammettendo che questa sia la scelta promozionale ottimale, implicitamente accettiamo che il target di riferimento di questi attori sociali, ovvero persone con un animale domestico, sia più emotivamente coinvolto dall’assistenza alle bestie che da quella umanitaria. Il che non è una conclusione di poco conto.

Estendendo lo sguardo ad altri campi notiamo che la tendenza a contornarsi di animali per emozionare il pubblico è ben radicata ovunque: Berlusconi pastorello e Monti cinofilo sono da considerarsi le versioni più macchiettistiche di questa pratica nella politica, e quasi non vi è più celebrità italiana o straniera che possa fare a meno di un selfie col suo amico a quattro zampe. Non di meno le notizie di cagnolini e altri batuffoli di pelo sono le più cliccate in rete.

Al di là delle motivazioni sottostanti questo slittamento di attenzioni dagli esseri umani agli animali, se il trend dovesse dimostrarsi stabile non è da escludere che possa sorgere una organizzazione simil-Unicef anche in questo settore della beneficenza, a tutela principalmente di pets a differenza di Greenpeace e affini. Un sindacato mondiale degli animali domestici avrebbe prospettive di guadagno notevoli, e se vogliamo maggiori rispetto alle Onlus che si battono per i diritti degli esseri umani: garantire la corretta nutrizione di un animale è assai più economico che fare lo stesso per un uomo. Gli animali non necessitano di un’istruzione, di una dimora fissa, di chissà quali cure mediche, e se muoiono per negligenza del personale questo non rischia nulla a livello penale.

Chissà che non possano pensarci gli stessi animali domestici a mettere su un bel business internazionale, magari nel corso delle riunioni segrete immortalate dal film campione d’incassi Pets – Vita da animali, trasposizione cinematografica del transfert freudiano che sostituisce i cani ai figli (nel film si sviluppa la consueta storia di un “cane unico” che vede affiancarsi un “fratellino” non gradito). Mentre un altro film di animazione più recente sembra indicare la strada per ridestare l’attenzione del genere umano verso se stesso: in Baby Boss un bambino con un’innata conoscenza del marketing cerca di ristabilire la giusta proporzione tra cuccioli animali e cuccioli di uomo sabotando la Puppy Co., multinazionale produttrice di amici a quattro zampe, al confine fra realtà e finzione.

Valerio Santori
(twitter:@santo_santori)

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